Simone Sarasso: dalla memoria alla profezia
26/08/2009
Simone è novarese, ovvero abitiamo nella stessa città. E’ capitato che andassimo a mangiare (e bere) qualcosa insieme a due care amiche. Francesca, che è già apparsa su questo blog, e Paola. Ovviamente la serata è degenerata, e certo non per colpa delle signore. Il risultato di quella serata, e anche di tante altre chiacchierate tra me e Simone, è riassunto in questo articolo, microsaggio, chiamatelo un pò come volete … che, grazie all’amico Stefano Giovinazzo, è stato anche pubblicato su Il Recensore.
Simone Sarasso è poco più che trentenne. Quando ho iniziato ad avvicinarmi a lui ed ai suoi scritti non immaginavo nemmeno l’opera di ricerca e scavo che, in completa incoscienza, si è intestardito a portare a termine per il suo romanzo: una storia d’Italia per enigmi e misteri, a partire dal secondo dopoguerra. Opera che nemmeno un Montanelli o un Biagi si sono azzardati ad intraprendere, consci degli enormi rischi, personali e politici che avrebbero corso. “La trilogia dell’Italia sporca“, così si intitola, e ad oggi ne sono stati pubblicati solo i primi due volumi. Dov’è il trucco? Cos’è che permette oggi a Sarasso di riuscire dove altri ben più titolati di lui non si sono nemmeno azzardati? Innanzitutto – e non bisogna scordarlo – i tempi sono cambiati. Non molti anni or sono, chiunque avesse avanzato certe ipotesi o fatto certe domande, probabilmente avrebbe ricevuto dei regali sgradevoli, spesso definitivi. Oggi – sembrerebbe – non è più così, o per lo meno non lo è finché si parla degli anni fino alla morte di Moro, ovvero del secolo scorso. Il terzo volume della “Trilogia dell’Italia Sporca” è ancora da pubblicare, e solo allora si vedrà quanto il distinguibile lavoro di Sarasso potrà toccare anche gli attuali poteri forti.
Poi, se si vuole, il meccanismo letterario attuato dall’autore è abbastanza semplice, soprattutto alla luce del nuovo modello letterario, il New Italian Epic, che Wu Ming ha imposto alla critica ed alla letteratura del nuovo millennio. Sarasso sta scrivendo un romanzo, e per quanto i principi di verosimiglianza e verificabilità debbano essere rispettati , siamo sempre in un romanzo, non in un articolo di quotidiano (proprio perché la gestione della verità, la differenza tra vero e falso è completamente alterata dalla differenza mediatica). Questo è il paravento di Sarasso, il suo scudo, il meccanismo salvifico che gli permette di chiamarsi fuori nei momento ostici, dove diventa indispensabile la prova provata. Scrivere un romanzo permette di bypassare questi momenti appellandosi a qualche emendamento (forse di Pennac?) che stabilisce la libertà dello scrittore, ma come è facile intuire di questo meccanismo non si può certo fare un uso eccessivo, pena la dipendenza e quindi la perdita di credibilità. Ed è proprio qui che scopriamo la grande perizia di Sarasso: pur dicendoti continuamente che stai leggendo un romanzo, che assomiglia solo alla verità, ma che non è – in senso giuridico – dimostrabile, Sarasso ti convince che ciò che probabilmente è proprio la verità, anche se non potrà mai provartelo. Crudelmente, verrebbe da dire, “in perfetto stile democristiano“.
Questo risultato lo si ottiene solo grazie al colossale lavoro di ricerca sui documenti che Sarasso ha compiuto, grazie agli anni spesi a verificare ipotesi ed a trovare tesi verosimili per problemi finora senza soluzione, ed allo sfruttamento, riconosciuto e ricordato, dei lavori affini di Lucarelli e Genna. La sua narrazione prosegue alternando personaggi diversi, alcuni dei quali sorprendentemente a volte muoiono – impedendo con ciò qualsiasi processo di identificazione tra lettore e personaggio – intercalata con poderosa documentazione d’archivio, che dovrebbe annoiare mortalmente qualsiasi lettore e che invece, nel contesto è assolutamente convincente e coinvolgente.
“Turkemar“, il primo romanzo scritto da Sarasso, lo scopriamo in realtà una specie di prequel a “Confine di Stato“, il primo atto della trilogia. Il romanzo racconta della vita di Fred Buscaglione, mito dell’Italia degli anni cinquanta, e nella prima parte della trilogia, Sarasso utilizza le conoscenze che aveva acquisito mentre si occupava della figura del grande musicista. In quegli anni Sarasso lavorava per Fernado Quatraro, che venuto a conoscenza delle capacità del suo dipendente, lo appoggiò decisamente nel proseguo della sua carriera. Sarasso pubblicò quindi per l’editore Effequ prima “Turkemar”, e a seguire una prima edizione di “Confine di Stato”. Notato da Jacopo de Michelis, di Marsilio, da Giuseppe Genna e da Wu Ming, firmò il contratto con
weight:bold;”>Marsilio per l’intera trilogia.
Quest’anno è stato pubblicato anche “Settanta“, secondo atto dell’opera, dove è l’Italia degli anni di piombo che viene passata sotto il riflettore dell’investigatore Sarasso. Non mi soffermo nei dettagli dei singoli romanzi, nell’analisi dei punti nodali della nostra (quasi) democrazia come viene delineata da Sarasso, dal caso di Wilma Montesi a Enrico mattei, soprattutto perché in questo m
omento non ci interessa tanto la veridicità del suo lavoro che pure è importante (sul tema sono già stati scritti moltissimi testi, perché questo dovrebbe essere migliore di altri?), quanto il suo rapporto con il lettore e la letteratura.
Cosa significa oggi rifare questo lavoro? E perché è così importante? Il terzo volume sappiamo che non è ancora stato scritto, forse perché in fondo è il più difficile dei tre, il più vicino alla nostra realtà e quello dove più facilmente si potrebbero toccare cadaveri ancora caldi, e forse sarà quello che, più dei primi due, ci darà risposte a queste domande. Ma Sarasso non si ferma, supera l’impasse dovuto al terzo volume, ovvero al presente, e si rivolge direttamente al futuro: “United we stand“. In Autunno uscirà una graphic novel con questo titolo dove viene inserito parte del materiale raccolto nell’omonimo sito e che si presta a moltissimi percorsi laterali.
Il mondo in cui ci troviamo è decaduto, a seguito della guerra nucleare sino-americana. In Italia è scoppiata la guerra civile, in conseguenza di un tentato golpe fascista e della ricostituita resistenza armata. E’ chiaro che il tutto avviene nel nostro mondo, con i valori e le possibilità del nostro mondo, e tutto ciò nel bene e nel male. Per cui non si tratta della Resistenza che noi conosciamo, ma di una sua versione cyberpunk, potremmo dire, così come il mondo che ne sorge è una specie di mondo parallelo con infinite possibilità di sviluppo.
Un exempla di questo mondo parallelo lo troviamo nel racconto scritto per l’antologia edita da Agenzia X, “Voi non ci sarete“. Il mondo di Sarasso è un Italia maledetta, dove da sempre lo scontro tra le bande armate infiltrate dai diversi blocchi ha provocato stragi e dolore. Il mondo futuro non è da meno, anzi.
Noi non siamo qui per condividere o meno il valore politico dello scrittore Sarasso, che d’altronde lui stesso rifiuta, da cui prende le distanza, ma dobbiamo sciogliere i nodi – almeno quelli possibili, di un’opera incompiuta. Così l’operazione iniziale di Sarasso è basata sulla memoria, e sul suo recupero attraverso la narrazione, riattualizzando così il passato a beneficio di tutti coloro che non lo hanno vissuto. Analogamente vedremo, attraverso l’esplosione mediatica, probabilmente ballardiana, lo sterminio della cronaca e del giornalismo, il loro diventare simulacro, icona della falsità e dell’ipocrisia, che è ciò che avviene nell’oggi, dove nulla ha più determinazione di realtà, quando passa attraverso il media televisivo, anche il dramma più profondo: Giuseppe Genna su questo tema ha scritto pagine memorabili nel suo “Italia de Profundis“. Si giunge così al futuribile, alla profezia, schema narrativo del possibile, dove le mille eventuali interpretazioni dello sciamano Sarasso aprono infiniti futuri ad un ‘Italia sempre più lontana dal reale, e sempre più integrata in un reality. “United we stand” è proprio questa profezia: il drammatico futuro di un Italia che non è stata capace di liberarsi dai gioghi dell’ideologia, e lo sciamano Sarasso ci conduce a vedere il muro che, dopo Roma, divide l’Italia in due.
Savana Padana subisce moltissimo l’influenza di Sergio Leone (tu stesso parafrasi parlando di “polenta Western”), e, come in Sergio Leone, i personaggi diventano degli archetipi, degli elementi mitologici. Nella realtà della scrittura ti sei ispirato a qualcuno? esistono delle persone che (almeno in parte) hanno contribuito a formare i tuoi personaggi?
Savana Padana è un romanzo non solo influenzato, ma direi anche fortemente sporcato, perturbato e addirittura violentato da diverse contaminazioni e suggestioni, sia letterarie sia cinematografiche. Penso al noir e anche alla crime fiction passando per il pulp, il grottesco, il kitsch. Certo, la cifra più genuinamente western è, con tutta probabilità, quella volutamente più incisiva nell’impronta della storia, nel senso che come dici tu questo aspetto sottolinea gli aspetti più mitologici e se vogliamo epici della vicenda, con questi personaggi che effettivamente assurgono ad archetipi. A tale proposito mi sono ispirato in verità a diverse suggestioni, riferite sostanzialmente a due filoni: uno legato alla realtà vera e propria ed un altro legato alla letteratura e al cinema. Per quanto riguarda il primo devo dare merito anzitutto ad una mia affinità elettiva per una certa dimensione rurale, triviale della mia terra e ai molti personaggi crudi e volgari che popolano le campagne venete, basti pensare ad esempio agli avventori dei nostri bar, alle sagre paesane, ma anche ai protagonisti dei fatti di cronaca nera locale unitamente alle difficoltà legate all’integrazione di molti stranieri. Per quanto riguarda il secondo filone invece, cioè quello più strettamente culturale, potrei citare riferimenti a Lansdale, Leonard, Crews, Lee Burke in letteratura; Leone, Tarantino, il Kusturica di “Gatto nero gatto bianco” e lo Scorsese di “Good Fellas” nel cinema. Tutto frullato insieme in un frappé di grappa, pistole, polenta, sangue e dialetto. E il risultato è quello che conosci. Cioè una brodaglia politicamente scorrettissima e sanguigna che nessun narratore veneto ha mai avuto voglia di raccontare perché troppo preso da solipsismi, contemplazioni dell’ombelico e seghe mentali che ormai appartengono ad una cultura novecentesca per me del tutto superata e assolutamente anacronistica.
Tu vieni dalla letteratura per l’infanzia, e quindi conosci la morfologia della fiaba. Lo stesso processo di formazione si può applicare al thriller-noir, solo che qui non si salva nessuno, né moralmente né materialmente. Possiamo immaginare che lo zingaro gay fuggito con la coca farà presto la stessa fine degli altri, in un racconto che non è ancora stato scritto? Non hai sentito la mancanza (in senso narrativo) di un personaggio che permettesse al lettore di identificarsi? E’ una scelta pericolosa, che però mi pare abbia pagato.
Verissimo, la morfologia della fiaba di Propp a volte è adatta anche alla struttura del thriller-noir, e per la verità anche nelle fiabe antecedenti il XVII secolo l’elemento nero era fortissimo, tanto che spesso non si salvava nessuno nemmeno lì: i loro protagonisti finivano molto male poiché le fiabe venivano considerate come i migliori veicoli di ammonimento comportamentale e avevano principalmente il compito di dissuadere i bambini dal tenere atteggiamenti scorretti come quelli dei protagonisti, pena la loro stessa tragica e sanguinosa fine. Venendo allo zingaro gay di Savana Padana, beh, francamente non ho pensato ad un sequel, anche se a dir la verità, per lui la vedrei molto brutta, nel senso che secondo me finirebbe presto per mettersi in guai più grossi di lui. No, non ho mai sentito la mancanza di un personaggio nel quale il lettore si potesse identificare, e sai perché? Perché la mia idea fin dall’inizio è sempre stata quella di rappresentare un “circo di sangue” al quale si possa assistere dall’esterno o dal di sopra, una sorta di scontro tra moderni gladiatori o di corrida pulp, dove i personaggi rappresentano gli aspetti più barbari, crudi e triviali di ognuno di noi, ma stanno “sotto” a noi, galleggiano in una sorta di sconfitta ineluttabile e in divenire. Adoro essere sarcastico, cinico, spietato con i miei personaggi. Né vincitori, né eroi. Tutti vinti. In fondo tutti vittime della “morale dell’ostrica” di Verghiana memoria. C’è chi ha detto che i miei personaggi sono stereotipi, senza spessore psicologico. Dal mio punto di vista questo non è affatto una “deminutio”, nel senso che i miei personaggi volutamente non sono riflessivi, semplicemente perché non sanno nemmeno cosa sia la riflessione o lo psicologismo. In questo senso sono più simili alle bestie che agli esseri umani: vivono di istinti primordiali, di sensi.
E di gente così ce n’è più di quanta pensiamo…
E poi mi piace il fatto di raccontare storie senza coinvolgimenti morali o psicologici da parte anche del narratore. Raccontare per raccontare. E per divertire. Punto. Poi ognuno si faccia le idee che vuole.
Io stesso ho parlato di Massimo Carlotto, vista la zona di provenienza, ma da un punto di vista narrativo, non mi sembra che abbia molto a che fare con te. Quali sono (oltre al già citato Sergio Leone) i tuoi riferimenti? La tua storia di lettore è affine a quella di scrittore? mi spiego: uno può scrivere quello che gli piace, nel senso di ciò che ritiene affine alla sua indole, cultura etc. Ma dall’altra parte si può anche scrivere ciò che si ritiene giusto scrivere, ciò che uno sente di dover scrivere, perchè dà un valore non solamente personale alla propria scrittura. Sergio Paoli, Carlotto, o Sandrone Dazieri per esempio secondo me rientrano nella seconda categoria (li possiamo definire scrittori impegnati?), mentre nella prima metterei un Landsdale e un McCarthy (ovvero autori che comunque ‘seguono il loro destino’). Tu a chi ti senti più vicino?
Stimo tantissimo Massimo Carlotto e trovo che sia davvero un ottimo scrittore. Ciò detto, io e lui viviamo letterariamente su due pianeti diversi. Carlotto e noiristi a parte, la stragrande maggioranza degli scrittori italiani è per così dire più impegnata a far riflettere che a raccontare. Più che narratori sembrano suore tout court e sacerdoti politici. Nella maggior parte della produzione letteraria nazionale infatti è quasi sempre sottesa una qualsivoglia denuncia sociale, una questione morale che faccia riflettere sul mondo che ci circonda. Io rifiuto questa base di partenza, nel senso che per mia parte voglio provare a fare qualcosa di diverso, qualcosa che non rientri nella solita snobistica concezione tipicamente italiana per cui “scrittori” sono soltanto i lirici e gli intimisti. Io desidero primariamente raccontare storie storie toste, poi se queste fanno anche riflettere qualcuno o in qualche misura riescono a sollevare dei temi di riflessione, bene, sennò va bene lo stesso. Alla lirica preferisco l’epica. Eppoi è importante anche che la mia storia diverta. Altra cosa infatti che francamente non sopporto davvero più è quello snobismo per cui molti autori intendono sempre rivolgersi ad un pubblico cosiddetto “alto”, salvo poi lamentarsi che non si vendono più libri. Ma io mi chiedo: se la cultura è per pochi, possiamo legittimamente parlare di
cultura? Per carità, i miei riferimenti sono altri, e sono da ricercarsi soprattutto oltreoceano: penso a Lansdale, appunto, a McCarthy e a tutti quegli autori tanto amati e citati dal movimento Sugarpulp.
Mi racconti anche se ti stai scrivendo qualcosa, che cosa, di che parla etc.?
Ho già pronto un altro racconto lungo, sostanzialmente si tratta di un horror-noir: una storia di formazione criminale raccontata in prima persona dal protagonista, il quale all’epoca dei fatti era un adolescente perdigiorno. L’anno della storia è il 1982, l’anno dei mondiali di Spagna e di tanta musica pop di successo. I luoghi sono quelli solari delle spiagge di Sottomarina e quelli oscuri e spettrali della laguna nera retrostante il porto di Chioggia, ai confini tra le province di Padova e Venezia.
E proprio in questi giorni ho iniziato a lavorare ad un terzo romanzo del mio filone “polenta-western”. E credo che ci sarà da divertirsi parecchio…
intervista pubblicata su Il Recensore
Io, Sergio, Francesca e la Talpa.
10/07/2009
Non è un trattato sugli insettivori, bensì l’incontro che io e Sergio abbiamo avuto alla Libreria La Talpa di Novara per parlare del suo libro, Ladro di Sogni, e l’ottima cena innaffiata di bonarda che ne è seguita, dove ci ha tenuto compagnia Francesca. La chiacchierata con Sergio è stata piacevole ed interessante: Sergio è un uomo che crede in ciò che scrive e di conseguenza è capace di seguire un dibattito anche se non preindirizzato sui canali selle classiche presentazioni. Questo ci ha permesso di allontanarci dal contesto principale del libro, e di parlare di letteratura (del NIE), della situazione del nostro (martoriato) paese, del ruolo degli scrittori e degli intellettuali, dei conflitti presenti tra e con le cosidette forze dell’ordine. Gli ospiti erano decisamente coinvolti, e nei giorni seguenti sia io che Paolo abbiamo ricevuto più di un commento positivo alla serata. Le solite disgraziate questioni di tempo mi hanno impedito di postare queste note fino ad oggi, quando l’incontro è avvenuto il giorno 24 giugno. La recensione che segue è stata pubblicata su Il recensore.
“Ladro di sogni”: una Milano di periferia e di degrado
Sergio Paoli è al suo primo romanzo propriamente detto, ed alla seconda prova come narratore, dopo l’antologia di racconti Rumori di fondo. Ha 45 anni e può vantarsi di essere stato definito da Giancarlo de Cataldo come “una rivelazione nel panorama del miglior thriller italiano“. Ladro di sogni (Frilli, 2008) è un noir, o meglio, un poliziesco, di quelli che, quando arrivi alla fine, ti ritrovi a rileggere l’inizio, borbottando che allora adesso si capisce perché quell’inizio, e poi quella parte di storia che è lasciata in sospeso.
Ecco, poi i fili si riannodano: tutto torna. O meglio, la storia, la narrazione torna, ma certo non è piacevole l’umore che lascia. Perché Ladro di sogni non è certo un libro per anime belle, non le manda certo a dire, a cominciare dalla citazione pasoliniana in apertura, “io so …” .
Senza dubbio l’ambientazione è il primo elemento che l’autore vuole sottoporre alla nostra attenzione. La periferia milanese, degradata e marginale, tra rom e naziskin, poliziotti e operatori della Caritas. E’ su questo sfondo che si muove il commissario Marini, personaggio ed ‘eroe’ della storia che Sergio Paoli ci racconta. Marini è un poliziotto idealista, allontanato da ogni incarico di vera responsabilità e disprezzato dai colleghi, in seguito alle dichiarazioni che ha rilasciato dopo la mattanza di Genova nel 2001.
Escluso dallo spirito di corpo, Marini si ritrova solo ad affrontare un caso in cui lui potrebbe diventare il capro espiatorio, quello a cui far pagare un insuccesso. Ciò non accade, ed il nostro eroe riesce a schivare la trappola tesagli dai superiori politicamente influenzati, ed in tutto ciò riesce anche a trovare qualcosa che potrebbe diventare un amore. Un successo su tutti i fronti? Certo non è una sconfitta, ed è certo che Sergio Paoli vuole a tutti i costi filtrare un messaggio positivo, di speranza, uno spiraglio di luce tra le nubi.
Altrettanto certo però è che il cielo appare tutt’altro che limpido: vittime che diventano carnefici, vittime che sono e sempre rimarranno tali, la completa assenza di valori civici e sociali dimostrata da quello che una volta si chiamava ‘popolo’, sono elementi di un orizzonte di inevitabile dolore e decadenza, che Paoli non ci illude di poter cambiare attraverso l’impegno o la partecipazione, anche se sono valori che vengono platealmente sottolineati positivamente.
Paoli, nel seguire il comandamento pasoliniano, non vuole certo rimanere sul vago, e fa nomi e cognomi, attaccando direttamente la componente politica, e soprattutto quel fango emotivo, quel torbido in cui lasciamo colpevolmente che la nostra società sguazzi, ed in cui pescano fascismo e xenofobia, espressamente indicati come i colpevoli della realtà in cui ci troviamo a vivere.
L’altro aspetto del romanzo che, forse anche qui inseguendo un percorso pasoliniano, sottolinea delle prese di posizione decise e controcorrente è quello della pedofilia. Così come è senza appello la condanna di fascismo e xenofobia, così la pedofilia viene strappata dal ruolo infamante della cronaca quotidiana per ritornare ad essere ciò che è: una malattia, dove il pedofilo è la prima vittima. Difatti la catena delle morti segue questa spirale di inevitabilità, poiché nata nell’infanzia, nel passato remoto, in un trauma infantile, in un educazione sbagliata e repressiva.
Marini comprende, e umanamente capisce, soprattutto se e quando si vuole fare del pedofilo malato il responsabile anche di ciò che non ha commesso. Siamo sempre nel fango in cui sguazziamo, ma se sul piano politico riconosco un idealismo dell’autore che ancora è riscontrabile, esiste, e fa parte della quotidiana lotta politica di questa italia minuscola, a proposito della lotta alla pedofilia non posso che ammirare il coraggio dimostrato dall’autore nel sostenere posizioni che oggi solo una percentuale minima della popolazione potrebbero dire di condividere.
A questo punto aspettiamo Sergio Paoli alla prossima prova narrativa, con o senza il commissario Marini (che potrebbe diventare un bel personaggio seriale), dove vedremo se il sacro fuoco dell’agone sociale continuerà ad ardere con il vigore qui mostrato o se invece il proseguo della narrazione lo porterà verso lidi meno diretti.
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“Savana Padana”. Hard boiled nel nord est.
01/07/2009
Matteo è un ottimo scrittore. Invito chi mi legge a cercarlo su Sugarpulp, l’ottimo sito che costruisce insieme a Matteo Strokul. Questa è la recensione pubblicata su Il Recensore.
Già Massimo Carlotto ci aveva accompagnato durante notti sudate e senza scrupoli nel sottobosco malavitoso che si estende nella campagna del ricco nord est. Ora Righetto cammina sugli stessi sentieri, ed incontra la malavita del Brenta in Savana Padana. Sono argini che la cronaca nera ci ha raccontato lungamente in anni non lontani. Zingari, mafiosi cinesi, carabinieri corrotti, ed il caldo: un cocktail esplosivo che segna il destino di una piccola comunità, quella di San Vito Oltrebrenta, dove si svolge la trama. Il romanzo scorre liscio come le acque dei canale. Tratteggia i caratteri di malavitosi di altre epoche, e di altri mondi, che paradossalmente, giungono a guardarsi negli occhi solo sotto lo sguardo vigile e disincantato di Sant’Antonio da Padova, protettore di tutti e generatore di un mistico alone che pervade il romanzo intero. I personaggi sono talmente perfetti nel loro ruolo da assumere il carattere di stereotipi, diventano dei characters, delle maschere si potrebbe tradurre, visto che ci troviamo nella terra del Carnevale. Remus, l’anziano capo degli zingari, Chen il mafioso cinese (e come altrimenti poteva chiamarsi?), Pamela l’estetista un po’ puttana, e poi i malavitosi di paese: Il bestia, Nibale, Sante, Berto, e così via, fino all’apoteosi del comandante dei carabinieri, che non poteva che chiamarsi Fetente, di nome e di fatto.
Maschere, appunto, stereotipi di una realtà dove tutto è falso, o per lo meno dove nulla è vero, bensì tutto è simulacro del vero, come la statua del santo, nascondiglio dorato, ed oggetto del desiderio delle varie bande. Il tempo a San Vito Oltrebrenta è fermo, come Nane, che da trent’anni ripete la stessa frase, poiché in realtà sono già tutti morti. La morte li accompagna ogni giorno, ma per il semplice motivo che non si può vivere lì, solo i morti possono farlo, nessuno può sopravvivere alla disperazione. Disperazione radicale, che attanaglia, come l’aria calda e umida dell’estate in cui si svolge il racconto, e da cui non ci si può allontanare.
I personaggi di Savana Padana sono morti che camminano, è solo questione di tempo. Si può dire quindi che il libro ha quindi diversi livelli di lettura, tra l’altro ulteriore conferma del suo valore. Può essere trovato anche divertente: molti personaggi sono delle macchiette, e la quotidiana routine di un piccolo centro di campagna è presa in giro, ridicolizzata, permettendo a molti lettori di riconoscersi in questi stereotipi. Eppure se riusciamo ad essere di poco più sensibili degli zombie che popolano il testo avvertiamo l’intensa drammaticità di personaggi come le ragazzine cinesi, sfruttate e costrette alla prostituzione, oppure di Diamante, lo zingaro gay in cerca di una rivalsa. E’ una vecchia canzone di Gino Paoli la colonna sonora di questo finale.
Savana Padana quindi è un’opera assolutamente consigliabile, una lettura d’impatto e forte nei suoi contenuti, anche per la lettura sociale che viene sottesa. Aspettiamo presto un’altra prova così interessante da Matteo Righetto, che certo ne ha le capacità. !