Inchiostro Rosso è il nome della collana noir edita da Agenzia X, e curata dallo scrittore milanese Matteo di Giulio, che viene inaugurata da “La gabbia dei matti“, il nuovo romanzo di Luca Rinarelli, scrittore torinese che ha esordito solo due anni fa con l’ottimo “In perfetto orario” (Robin). Considerato il successo del personaggio di Werner, figura accattivante e nel contempo dotata di profondità e sensibilità, ci si poteva aspettare un sequel, che certamente sarebbe stato ben accolto dai lettori.
È quindi una piacevole e inattesa sorpresa leggere una storia che affronta temi nettamente diversi dalla precedente, mantenendo una prosa elegante e solida. Rinarelli si conferma abile narratore e attento osservatore della realtà che lo circonda – non a caso associa alla scrittura l’attività di fotografo. Il suo sguardo risente di questa sua deformazione professionale, dell’abitudine a “mettere a fuoco”: una caratteristica costante della sua narrazione è infatti il continuo reinquadrare i personaggi – che sfuggono a griglie predeterminate proprio perché obbediscono a un criterio di verità. Quasi un reportage, La gabbia dei matti richiama l’attività professionale di Rinarelli, che si occupa, presso un’associazione, di persone senzatetto e in difficoltà, come la maggior parte dei personaggi di quest’opera.
Verrebbe immediato inserire questo racconto nel filone del noir sociale, e Rinarelli certamente si inquadra in questo modulo narrativo. La gabbia dei matti, difatti, è un testo duro, crudo e di frontiera. Èun’opera di parte, e in modo netto, senza distinzioni e orpelli retorici. Eppure, nonostante ciò, è un’opera carica di dubbi e perplessità, in quanto la distanza sempre più ampia tra teoria e prassi costituisce la cifra del racconto: anche se gli ideali sono saldi, oggi le pratiche sono molto meno facilmente delineabili. La questione posta dai personaggi non ammette dilazioni, o strategie. Come si ottiene giustizia? Qual è nel nostro tempo martoriato la via per vivere degnamente? I piccoli uomini di Luca Rinarelli, allontanati da una società che non ha occasione di sfruttarli, e divenuti perciò inutili, scelgono la via della rivolta. Non vi è alcuna commiserazione, né traccia di quel pietismo o sentimentalismo romantico di sinistra, troppo spesso presente in ogni percorso che si interroghi sulle forme di lotta.
Marco, Daniela, Pietro, Jack, Borghi e tutti gli altri, ognuno a suo modo, si elevano in un istante di dignità che li trasfigura. Non sono più i falliti relitti di una Torino appena intravista sullo sfondo di fabbriche abbandonate e lavori in corso. In un mondo dove la clinica e la prigione sono l’anticamera del cimitero, provano – per pochi giorni – a vivere degnamente.
Le caratteristiche narrative avvicinabili al neorealismo che erano proprie del precedente romanzo, e che nelle prime pagine potrebbero apparire come modulo stilistico prevalente anche del secondo romanzo, prendono la forma di una specie di realismo magico, in cui simboli e segni si intersecano alla realtà. La sindrome bipolare, la depressione, la schizofrenia, e il catalogo di disfunzioni mentali di cui soffrono i personaggi, diventano, come in Burroghs e Dick, altrettante strategie per ricostruire la realtà, per provare a modificarla. Pratiche di sopravvivenza che si incontrano con la apparente realtà in modo dirompente, e non omologabile ad altre forme di rivendicazione.
Vi sono delle questioni aperte che emergono con forza in questo romanzo, e che di certo costituiscono il suo merito principale, come quella – irrisolvibile – del ruolo della violenza nel processo rivoluzionario. Il tema della memoria è altrettanto sentito: per costruire una società più giusta, ma anche solo per opporre il ricordo alla omologazione della cronaca, si esplicita in modo netto la necessità di mantenere vivi nella memoria individuale e collettiva tutti coloro che sono morti a causa di un potere esercitato con la forza di un abuso.
Nel romanzo gioca un ruolo importante la Rete, di cui Rinarelli induce nei suoi personaggi un utilizzo estremamente sofisticato, rendendo attuale così ancor di più la narrazione, ed evidenziandone possibilità e limiti. I media, e in particolare i giornali, sono protagonisti, e anche in questo frangente emerge il conflitto e il dibattito interno ai media stessi, circa ruolo e funzione dell’informazione. Tutti questi temi rivestono un’importanza centrale, e ogni lettore non potrà evitare di sentirsi chiamato a partecipare; tuttavia, credo che il vero fulcro di questo breve ma intenso romanzo consista nel ribaltamento di prospettiva che si realizza nella vita dei protagonisti.
“Un altro mondo è possibile” non è più lo slogan di un movimento, ma una prassi da attuare, un modulo di lavoro, uno schema interpretativo attraverso cui rileggere la quotidianità. Ognuno dei personaggi è quindi in grado di ricongiungere ideali, progetti e vita. Lo spirito e la carne ragionano insieme, perché la distanza tra teoria e prassi si annulla nella Rivoluzione. Le disabilità dei protagonisti diventano le loro virtù, le loro debolezze la loro forza. Loro hanno ragione, e non perché lo dice la Storia o chi altro, ma perché il diritto è vissuto nella sua assenza, che purtroppo è spesso quotidianità, per chi in questa società non ha diritti, o li vede calpestati ogni giorno, perché è nella quotidianità che si incarna la giustizia, e loro lo (di)mostrano, vivendo da giusti, grazie a quelle qualità che altri chiamerebbero handicap.
Originariamente pubblicata su Il recensore
Reading di Luca Rinarelli (video)
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Marilù Oliva ed il piccolo mondo del male.
14/01/2010
Leggere questo romanzo di Marilù Oliva è un piacere come raramente accade. “Repetita” (Perdisa, 2009) è senza discussioni il lavoro di un professionista. Eppure, sulla carta, si tratta dell’opera di un esordiente. Tecnicamente corrisponde ai fatti, ma solo formalmente, poiché in realtà la Oliva esordisce solo in quanto ’scrittrice di fiction’, mentre ha un background decisamente importante come saggista (scrive di Storia contemporanea), giornalista e critico su riviste come Thrillermagazine, Carmilla e Milanonera.
Un autore molteplice, quindi, capace di indirizzare le proprie capacità dove è opportuno in quel momento.
Scritto in un’incontestabile prima persona, “Repetita” gode di un’eccellente costruzione temporale, di un ritmo scandito come un metronomo, e non esce mai – nemmeno per un istante – dai binari in cui si è incamminato. La trama è lineare, si potrebbe dire (anche se è vero solo in parte) che non vi è nulla da scoprire; il lettore difatti si ritrova a conoscere ogni dettaglio dei fatti dalle parole stesse del protagonista, e – apparentemente – seguiamo il percorso che lui stesso costruisce.
Il romanzo racconta di Lorenzo, che si definisce da se un serial killer, ma – come mi confidava Danilo Arona (noto intrattenitore del mondo oscuro) – nulla ci dice che lo sia davvero. Tutto ruota sul piano della meta narrazione: Lorenzo ci indirizza su percorsi che conosce, e ci impedisce – di fatto – di osservare scientificamente il suo supposto crimine. Oliva elimina quindi tutto quell’aspetto di criminal scientific investigation che ormai da qualche tempo è rigorosamente associato alla procedura d’indagine. E’ proprio per questo che il piano squisitamente letterario e narrativo riprende il sopravvento, per formare un’opera intrigante e splendidamente maliziosa.
“Repetita” è – e scusate se è poco – un’indagine sulla banalità del male, sulla sua introiezione, sulle possibilità di una redenzione e sul valore dell’amore. Inoltre è un romanzo complesso che si realizza su diversi strati interpretativi, richiedendo – almeno per me così è stato – diverse letture per formare un’opinione coerente. Questo non toglie nulla alla bellezza di una narrazione non inficiata dalla ricerca di modelli letterari: il romanzo scorre in modo assolutamente piacevole e avvincente, ma Oliva si dimostra più che all’altezza anche ad una lettura critica.
La quotidiana reiterazione del male, il suo ripetersi, il suo eterno ritorno non è certo un tema nuovo. Nella storia della narrativa di genere si potrebbero citare moltissimi esempi: da Patricia Highsmith a Stephen King, da Thomas Harris a James Ellroy. In Oliva trova la sua particolare espressione, la specificità di Lorenzo. Il suo amore per la Storia con la maiuscola, il suo continuo ricercare una giustificazione ed un rispecchiamento nel passato, dove “l’ontogenesi ricapitola la filogenesi” – rubando le regole alla genetica – spiega come la storia dell’individuo, la storia singola, soggettiva non può fare altro che ripetere (ancora) la storia globale, quella umana, con tutti i suoi drammi e le sue (poche) fortune. La terapia freudiana di Lorenzo con la psicoanalista Marcella Malaspina, infarcita di transfert e sessualità che – forse, alla fine – potrebbe essere liberatoria, si interseca quindi con la junghiana (e sotterranea) analisi collettiva del soggetto storico collettivo.
L’analisi psicoanalitica è quindi uno strumento di liberazione, ma è evidente che Marilù Oliva non lo ritiene assolutamente sufficiente, anzi, nell’economia della narrazione si dimostra pesantemente inficiato da mille dinamiche emotive: eppure la via soterica, il percorso di salvezza passa da li, dalla parola, e dalla sua ripetizione: perché la psicoanalisi altro non è che reiterazione della parola salvifica. Così Marcella Malaspina cerca di salvare Lorenzo da se stesso, ma noi non possiamo dimenticarci che siamo interni alla narrazione stessa di Lorenzo, e quindi che quello che stiamo vedendo è un cerchio chiuso, una tautologia, dove il male racconta se stesso per liberarsi dal suo specchio: ancora una volta il serpente si avvinghia su se stesso nel porgerti la mela.
Siamo insetti che strisciano sulla superficie di quella mela, ed è già tanto se non finiamo schiacciati senza nemmeno che vi sia la volontà, sembra dirci – con un pessimismo che ricorda Schopenauer e Cioran – Marilù Oliva. La narrazione però sfugge a queste estremizzazioni e si rifugia nell’indefinito. Resta nel possibile, forse inconsciamente, la soluzione narrativa del romanzo, anche perché la banalità del male contiene ancora uno sguardo potente e pietrificante, ed è arduo sostenerlo.
Attendiamo quindi fiduciosi Marilù Oliva alla prossima prova, dopo questo prezioso “Repetita“.
Marilù Oliva vive a Bologna dove insegna lettere in un liceo. Nella vita ha fatto mille mestieri: tra l’altro ha guidato autobus e insegnato ballo latino americano. Certamente persona da frequentare
Pubblicata su “Il recensore“
Le ali dell’inferno
03/10/2009
Joe R. Lansdale è l’autore dei testi di questa breve graphic novel, “Le ali dell’inferno” (BD edizioni, 2009). Lansadale è un texano di mezza età che negli ultimi venticinque anni si è imposto all’attenzione mondiale per la sua smisurata opera letteraria. Nella lunga lista di ciò che è stato pubblicato in Italia, principalmente da Einaudi e Fanucci, ricordiamo “La sottile linea scura“, la trilogia della “Notte del drive-in” e “In fondo alla palude“, ma sono solo dei brevi consigli.
Joe R. Lansdale, guru del romanzo americano contemporaneo di genere, ha riproposto, sotto forma di graphic novel questo racconto, originariamente scritto da Robert E. Howard, il creatore di Conan.
Alla sceneggiatura di Lansdale si associano i disegni di Nathan Fox. L’edizione originale è della Dark Horse, ed in Italia viene riportata dai mai abbastanza lodati tipi di BD Edizioni.
Il racconto è un horror puro, quanto di più classico si possa immaginare. La storia di una famiglia assolutamente “normale” che si ritrova a gestire la nuova casa ereditata da un lontano parente. Come spesso succede si illude di poter sistemare la rovina e rimetterla in grado di ospitare persone. Purtroppo la magione è in rovina e vi incombe una maledizione. Non entro ovviamente nella trama per evitare qualsiasi spoiler, ma l’opera è assolutamente eccellente. I fondamentali del genere vengono ripresi nel rispetto dell’originale howardiano, ma l’autore non può esimersi dall’inserire elementi affini al suo stile, dando una precisa connotazione all’opera.
Lansdale non si stanca di rendere omaggio al “grande e meraviglioso Robert E. Howard” ed evidenziare il suo debito nei confronti del maestro, anche se in effetti il suo cipiglio si avverte nettamente in alcuni aspetti. La storia si svolge in Louisiana ed è un racconto a sfondo voodoo, “dove i morti si rifiutano di restare tali“, ma Lansdale è texano, e probabilmente c’è molto delle sue origini nel cowboy che le ragazze protagoniste incontrano nella fuga.
La principale caratteristica resta comunque la potenza del linguaggio di Lansdale: preciso, sintetico e tagliente. Mai si perde in eccessi o in descrizioni superflue. La potenza descrittiva di ogni singola parola è veramente unica. Questo è un breve esempio della sua arte, ma è un ottima introduzione per chi ha intenzione di avvicinarsi alla sua opera.
Joe Richard Harold Lansdale (nato nel 1951) scrive letteralmente di tutto: romanzi, racconti, sceneggiature, televisione, fumentii, thriller, horror, SF, western. Molto influenzato dalle sue origini texane, si può dire che abbia dato forma ad un vero e proprio stile. E’ considerato un genio.
Pubblicato su Il recensore
“Campi di Morte” di Stefano di Marino
30/09/2009
E’ l’ultima avventura del Professionista, anche se cronologicamente si situa prima di “Pietrafredda”. Il romanzo scorre liscio, scivola pagina dopo pagina, scritto con la maestria e la perizia a cui Stefano Di Marino ci ha da lungo tempo abituato.
Non ho intenzione di fare spoiler, per cui non racconterò nulla della trama, articolata e suggestiva, svolta in maniera eccellente tra flashback e tempo reale.
I riferimenti presenti nel testo sono come sempre in numero molto elevato, da quelli più espliciti, ad altri molto più nascosti. Herzog, Chatwin, i templari, le dottrine esoteriche europee e orientali, la cinematografia di genere e molto altro.
Di Marino si rivela ancora una volta, nella sua modestia, uomo in possesso di enciclopedica cultura, oltre che di una conoscenza approfondita e di prima mano delle location in cui ambienta i suoi romanzi, che si tratti di Bangkok, della Corsica, di Tallin o dell’interno della Nigeria.
Quindi ancora un’opera eccellente, in linea con le altre avventure del Professionista. Certamente la serialità non ha abbassato la qualità in questo caso.
Ci sono però degli aspetti che – pur non essendo delle novità a tutti gli effetti – rappresentano delle tendenze in corso nella scrittura di Di Marino.
Una considerazione si pone immediatamente a proposito della necessità di incalzare tematiche che siano adeguate all’attualità. La situazione geopolitica nelle opere del professionista è sempre perfetta e precisa, così come la presenza e l’utilizzo di strumentazioni scientifiche – oltre che di armamenti – che sono assolutamente verificabili ed esistenti (al di la della logica della fiction: verificabili nel senso di possibili).
Di questo si deve dare merito a Di Marino ed alla sua professionalità, ma è un indice anche del sempre più alto livello qualitativo dei lettori di “Segretissimo” che certo non si limitano a sfogliare le pagine acriticamente.
Inoltre con lo stesso spirito devono essere interpretate le questioni etico-morali che Chance Renard sempre più frequentemente si pone riguardo alla sua vita ed al suo lavoro. Oggi è doveroso – per compiere una seria costruzione narrativa – presentare questioni che qualsiasi essere umano si pone. Specie nel momento in cui il tuo lavoro ti porta ad avere a che fare con il lato peggiore degli individui. Sempre più spesso Chance e Antonia si chiedono tra le righe il senso ed il valore di ciò che fanno. C’è una relazione tra ciò che si è, ovvero – come ci racconta da sempre la tragedia greca – il proprio destino, la propria intima natura, e le proprie scelte?
Sempre più spesso Renard si chiede se è vero che non può vivere fuori da quel mondo, e la domanda si allarga di fronte a lui, assumendo scenari globali, ma è proprio vero che non si può vivere in un mondo di pace? Davvero dobbiamo dare per scontato che il nostro sia un mondo di dolore e sofferenza?
Il Professionista fa il suo lavoro, ma lo fa sempre meno volentieri, seguendo il decorso del vecchio compagno che muore di cancro e gli chiede: “Ma non hai mai pensato a cambiare vita?” Il mondo delle spie e dei contractors cambia sempre più velocemente, e Renard, uomo della Legione, uomo dotato di valori, con dei principi, che spesso è costretto ad infrangere, ma che conosce intimamente, non si riconosce in ciò che sta diventando.
Ed è qui che lo possiamo dire: Chance Renard sta diventando vecchio. La sua ‘anzianità di servizio’ gli pesa, il combattimento non lo gratifica più come un tempo, e l’adrenalina è ormai solo una reazione biologica. Il rettile è stanco, ed in fondo avverte il suo essere preistorico, stellarmente lontano da chi vive la guerra dietro ad una scrivania comandando droni o robot.
Non si combattono più ideali, ma solo grandi complessi industriali che hanno inglobato ogni aspetto della globalizzazione: dall’industria ai traffici peggiori (esseri umani, armi biologiche, rifiuti tossici), dagli armamenti alla finanza. Il rettile non ha nulla a che fare con questi soggetti. E’ vecchio, cinico, stanco e sfiduciato. La sua donna è morta ammazzata, e lui sappiamo che ha ancora una vendetta da compiere. Ha visto morire tanti amici intorno a se, e non vede alcun tipo di futuro di fronte a se. Questo però non gli impedisce di rischiare tutto ciò che ha per salvare una bambina, e solo perché è una bambina.
Hasta siempre, Chance Renard !
Pubblicata su Sugarpulp !
Simone Sarasso: dalla memoria alla profezia
26/08/2009
Simone è novarese, ovvero abitiamo nella stessa città. E’ capitato che andassimo a mangiare (e bere) qualcosa insieme a due care amiche. Francesca, che è già apparsa su questo blog, e Paola. Ovviamente la serata è degenerata, e certo non per colpa delle signore. Il risultato di quella serata, e anche di tante altre chiacchierate tra me e Simone, è riassunto in questo articolo, microsaggio, chiamatelo un pò come volete … che, grazie all’amico Stefano Giovinazzo, è stato anche pubblicato su Il Recensore.
Simone Sarasso è poco più che trentenne. Quando ho iniziato ad avvicinarmi a lui ed ai suoi scritti non immaginavo nemmeno l’opera di ricerca e scavo che, in completa incoscienza, si è intestardito a portare a termine per il suo romanzo: una storia d’Italia per enigmi e misteri, a partire dal secondo dopoguerra. Opera che nemmeno un Montanelli o un Biagi si sono azzardati ad intraprendere, consci degli enormi rischi, personali e politici che avrebbero corso. “La trilogia dell’Italia sporca“, così si intitola, e ad oggi ne sono stati pubblicati solo i primi due volumi. Dov’è il trucco? Cos’è che permette oggi a Sarasso di riuscire dove altri ben più titolati di lui non si sono nemmeno azzardati? Innanzitutto – e non bisogna scordarlo – i tempi sono cambiati. Non molti anni or sono, chiunque avesse avanzato certe ipotesi o fatto certe domande, probabilmente avrebbe ricevuto dei regali sgradevoli, spesso definitivi. Oggi – sembrerebbe – non è più così, o per lo meno non lo è finché si parla degli anni fino alla morte di Moro, ovvero del secolo scorso. Il terzo volume della “Trilogia dell’Italia Sporca” è ancora da pubblicare, e solo allora si vedrà quanto il distinguibile lavoro di Sarasso potrà toccare anche gli attuali poteri forti.
Poi, se si vuole, il meccanismo letterario attuato dall’autore è abbastanza semplice, soprattutto alla luce del nuovo modello letterario, il New Italian Epic, che Wu Ming ha imposto alla critica ed alla letteratura del nuovo millennio. Sarasso sta scrivendo un romanzo, e per quanto i principi di verosimiglianza e verificabilità debbano essere rispettati , siamo sempre in un romanzo, non in un articolo di quotidiano (proprio perché la gestione della verità, la differenza tra vero e falso è completamente alterata dalla differenza mediatica). Questo è il paravento di Sarasso, il suo scudo, il meccanismo salvifico che gli permette di chiamarsi fuori nei momento ostici, dove diventa indispensabile la prova provata. Scrivere un romanzo permette di bypassare questi momenti appellandosi a qualche emendamento (forse di Pennac?) che stabilisce la libertà dello scrittore, ma come è facile intuire di questo meccanismo non si può certo fare un uso eccessivo, pena la dipendenza e quindi la perdita di credibilità. Ed è proprio qui che scopriamo la grande perizia di Sarasso: pur dicendoti continuamente che stai leggendo un romanzo, che assomiglia solo alla verità, ma che non è – in senso giuridico – dimostrabile, Sarasso ti convince che ciò che probabilmente è proprio la verità, anche se non potrà mai provartelo. Crudelmente, verrebbe da dire, “in perfetto stile democristiano“.
Questo risultato lo si ottiene solo grazie al colossale lavoro di ricerca sui documenti che Sarasso ha compiuto, grazie agli anni spesi a verificare ipotesi ed a trovare tesi verosimili per problemi finora senza soluzione, ed allo sfruttamento, riconosciuto e ricordato, dei lavori affini di Lucarelli e Genna. La sua narrazione prosegue alternando personaggi diversi, alcuni dei quali sorprendentemente a volte muoiono – impedendo con ciò qualsiasi processo di identificazione tra lettore e personaggio – intercalata con poderosa documentazione d’archivio, che dovrebbe annoiare mortalmente qualsiasi lettore e che invece, nel contesto è assolutamente convincente e coinvolgente.
“Turkemar“, il primo romanzo scritto da Sarasso, lo scopriamo in realtà una specie di prequel a “Confine di Stato“, il primo atto della trilogia. Il romanzo racconta della vita di Fred Buscaglione, mito dell’Italia degli anni cinquanta, e nella prima parte della trilogia, Sarasso utilizza le conoscenze che aveva acquisito mentre si occupava della figura del grande musicista. In quegli anni Sarasso lavorava per Fernado Quatraro, che venuto a conoscenza delle capacità del suo dipendente, lo appoggiò decisamente nel proseguo della sua carriera. Sarasso pubblicò quindi per l’editore Effequ prima “Turkemar”, e a seguire una prima edizione di “Confine di Stato”. Notato da Jacopo de Michelis, di Marsilio, da Giuseppe Genna e da Wu Ming, firmò il contratto con
weight:bold;”>Marsilio per l’intera trilogia.
Quest’anno è stato pubblicato anche “Settanta“, secondo atto dell’opera, dove è l’Italia degli anni di piombo che viene passata sotto il riflettore dell’investigatore Sarasso. Non mi soffermo nei dettagli dei singoli romanzi, nell’analisi dei punti nodali della nostra (quasi) democrazia come viene delineata da Sarasso, dal caso di Wilma Montesi a Enrico mattei, soprattutto perché in questo m
omento non ci interessa tanto la veridicità del suo lavoro che pure è importante (sul tema sono già stati scritti moltissimi testi, perché questo dovrebbe essere migliore di altri?), quanto il suo rapporto con il lettore e la letteratura.
Cosa significa oggi rifare questo lavoro? E perché è così importante? Il terzo volume sappiamo che non è ancora stato scritto, forse perché in fondo è il più difficile dei tre, il più vicino alla nostra realtà e quello dove più facilmente si potrebbero toccare cadaveri ancora caldi, e forse sarà quello che, più dei primi due, ci darà risposte a queste domande. Ma Sarasso non si ferma, supera l’impasse dovuto al terzo volume, ovvero al presente, e si rivolge direttamente al futuro: “United we stand“. In Autunno uscirà una graphic novel con questo titolo dove viene inserito parte del materiale raccolto nell’omonimo sito e che si presta a moltissimi percorsi laterali.
Il mondo in cui ci troviamo è decaduto, a seguito della guerra nucleare sino-americana. In Italia è scoppiata la guerra civile, in conseguenza di un tentato golpe fascista e della ricostituita resistenza armata. E’ chiaro che il tutto avviene nel nostro mondo, con i valori e le possibilità del nostro mondo, e tutto ciò nel bene e nel male. Per cui non si tratta della Resistenza che noi conosciamo, ma di una sua versione cyberpunk, potremmo dire, così come il mondo che ne sorge è una specie di mondo parallelo con infinite possibilità di sviluppo.
Un exempla di questo mondo parallelo lo troviamo nel racconto scritto per l’antologia edita da Agenzia X, “Voi non ci sarete“. Il mondo di Sarasso è un Italia maledetta, dove da sempre lo scontro tra le bande armate infiltrate dai diversi blocchi ha provocato stragi e dolore. Il mondo futuro non è da meno, anzi.
Noi non siamo qui per condividere o meno il valore politico dello scrittore Sarasso, che d’altronde lui stesso rifiuta, da cui prende le distanza, ma dobbiamo sciogliere i nodi – almeno quelli possibili, di un’opera incompiuta. Così l’operazione iniziale di Sarasso è basata sulla memoria, e sul suo recupero attraverso la narrazione, riattualizzando così il passato a beneficio di tutti coloro che non lo hanno vissuto. Analogamente vedremo, attraverso l’esplosione mediatica, probabilmente ballardiana, lo sterminio della cronaca e del giornalismo, il loro diventare simulacro, icona della falsità e dell’ipocrisia, che è ciò che avviene nell’oggi, dove nulla ha più determinazione di realtà, quando passa attraverso il media televisivo, anche il dramma più profondo: Giuseppe Genna su questo tema ha scritto pagine memorabili nel suo “Italia de Profundis“. Si giunge così al futuribile, alla profezia, schema narrativo del possibile, dove le mille eventuali interpretazioni dello sciamano Sarasso aprono infiniti futuri ad un ‘Italia sempre più lontana dal reale, e sempre più integrata in un reality. “United we stand” è proprio questa profezia: il drammatico futuro di un Italia che non è stata capace di liberarsi dai gioghi dell’ideologia, e lo sciamano Sarasso ci conduce a vedere il muro che, dopo Roma, divide l’Italia in due.
Italian Blood: “La sete”
13/08/2009
“La sete” ha una storia travagliata. Più di 10 anni fa, quando ancora i vampiri non erano sul collo di tutti gli adolescenti del mondo occidentale, un encomiabile editore ha cercato di riunire intorno all’incisivo tema alcune tra le migliori penne horror e noir della penisola. Purtroppo alterne vicende ne hanno impedito la pubblicazione. Oggi Coniglio editore, ha rintracciato i manoscritti perduti, eliminato i racconti che nel frattempo erano già stati pubblicati e li ha sostituiti con nuove produzioni.
Il risultato ottenuto è stato decisamente positivo, e degno dei mordenti autori: dimostrazione ne è la evidente difficoltà che si trova nel distinguere i racconti della prima edizione da quelli della seconda. Applausi a tutti gli autori, che dimostrano la costanza di una scuola italiana di alta qualità. Scrittori come Andrea Carlo Cappi, Dario Tonani e Gianfranco Nerozzi sono certamente esponenti di una certa ‘vecchia guardia’, ma a loro si sono aggiunti molti giovani agguerriti, che non hanno certo nulla da invidiare in quanto audacia e cattiveria.
I vampiri italiani sono pericolosi. Non sono ne glitter ne giovincelli innamorati, bensì assassini, tossici e asociali. Questo è lo sfondo delle storie di quest’antologia, che – tra l’altro – può vantarsi di avere avuto la copertina censurata negli USA. Alberto Corradi e Massimo Perissinotto (i curatori) hanno compiuto un ottimo lavoro di integrazione tra le diverse concezioni del fenomeno vampirismo, ma sempre senza nessuna concessione al new modelche ci arriva dalle tante operazioni di basso livello a cui abbiamo assistito in questi ultimi anni. I tre scrittori sopra citati sono anche gli autori dei racconti più apprezzabili, a cui però bisogna aggiungere l’esilarante pezzo firmato da Cristiana Astori, giovane e scaltra promessa del panorama horror & dintorni.
Altro aspetto che per i cultori è tutt’altro che da sottovalutare sta nell’assoluta varietà del modello vampiro tracciato in questa antologia, si va quindi dal Nosferatu o Dracula più classico fino a Blade o alla giovane ragazzina di Lasciami Entrare. Per tutti i gruppi sanguigni quindi, e senza entrare nello specifico dei racconti (sarebbe veramente complesso non cadere nello spoiler), certamente è una lettura piacevolissima per le calde sere d’agosto.
Concludo con le centrate parole della nota editoriale, per cui “La sete è la traduzione italiana di trecento anni di mito. Dal remoto bianco e nero Nosferatu si racconterà di nuovo a voi, ma con il sonoro del peggior slash movie, le sublimi distese desolate di David Lynch, con protagonisti psichedelici e neoclassici affreschi splatterpunk […]“. Esagerati quanto l’antologia, da non perdere.
Pubblicata su Il recensore.
Savana Padana subisce moltissimo l’influenza di Sergio Leone (tu stesso parafrasi parlando di “polenta Western”), e, come in Sergio Leone, i personaggi diventano degli archetipi, degli elementi mitologici. Nella realtà della scrittura ti sei ispirato a qualcuno? esistono delle persone che (almeno in parte) hanno contribuito a formare i tuoi personaggi?
Savana Padana è un romanzo non solo influenzato, ma direi anche fortemente sporcato, perturbato e addirittura violentato da diverse contaminazioni e suggestioni, sia letterarie sia cinematografiche. Penso al noir e anche alla crime fiction passando per il pulp, il grottesco, il kitsch. Certo, la cifra più genuinamente western è, con tutta probabilità, quella volutamente più incisiva nell’impronta della storia, nel senso che come dici tu questo aspetto sottolinea gli aspetti più mitologici e se vogliamo epici della vicenda, con questi personaggi che effettivamente assurgono ad archetipi. A tale proposito mi sono ispirato in verità a diverse suggestioni, riferite sostanzialmente a due filoni: uno legato alla realtà vera e propria ed un altro legato alla letteratura e al cinema. Per quanto riguarda il primo devo dare merito anzitutto ad una mia affinità elettiva per una certa dimensione rurale, triviale della mia terra e ai molti personaggi crudi e volgari che popolano le campagne venete, basti pensare ad esempio agli avventori dei nostri bar, alle sagre paesane, ma anche ai protagonisti dei fatti di cronaca nera locale unitamente alle difficoltà legate all’integrazione di molti stranieri. Per quanto riguarda il secondo filone invece, cioè quello più strettamente culturale, potrei citare riferimenti a Lansdale, Leonard, Crews, Lee Burke in letteratura; Leone, Tarantino, il Kusturica di “Gatto nero gatto bianco” e lo Scorsese di “Good Fellas” nel cinema. Tutto frullato insieme in un frappé di grappa, pistole, polenta, sangue e dialetto. E il risultato è quello che conosci. Cioè una brodaglia politicamente scorrettissima e sanguigna che nessun narratore veneto ha mai avuto voglia di raccontare perché troppo preso da solipsismi, contemplazioni dell’ombelico e seghe mentali che ormai appartengono ad una cultura novecentesca per me del tutto superata e assolutamente anacronistica.
Tu vieni dalla letteratura per l’infanzia, e quindi conosci la morfologia della fiaba. Lo stesso processo di formazione si può applicare al thriller-noir, solo che qui non si salva nessuno, né moralmente né materialmente. Possiamo immaginare che lo zingaro gay fuggito con la coca farà presto la stessa fine degli altri, in un racconto che non è ancora stato scritto? Non hai sentito la mancanza (in senso narrativo) di un personaggio che permettesse al lettore di identificarsi? E’ una scelta pericolosa, che però mi pare abbia pagato.
Verissimo, la morfologia della fiaba di Propp a volte è adatta anche alla struttura del thriller-noir, e per la verità anche nelle fiabe antecedenti il XVII secolo l’elemento nero era fortissimo, tanto che spesso non si salvava nessuno nemmeno lì: i loro protagonisti finivano molto male poiché le fiabe venivano considerate come i migliori veicoli di ammonimento comportamentale e avevano principalmente il compito di dissuadere i bambini dal tenere atteggiamenti scorretti come quelli dei protagonisti, pena la loro stessa tragica e sanguinosa fine. Venendo allo zingaro gay di Savana Padana, beh, francamente non ho pensato ad un sequel, anche se a dir la verità, per lui la vedrei molto brutta, nel senso che secondo me finirebbe presto per mettersi in guai più grossi di lui. No, non ho mai sentito la mancanza di un personaggio nel quale il lettore si potesse identificare, e sai perché? Perché la mia idea fin dall’inizio è sempre stata quella di rappresentare un “circo di sangue” al quale si possa assistere dall’esterno o dal di sopra, una sorta di scontro tra moderni gladiatori o di corrida pulp, dove i personaggi rappresentano gli aspetti più barbari, crudi e triviali di ognuno di noi, ma stanno “sotto” a noi, galleggiano in una sorta di sconfitta ineluttabile e in divenire. Adoro essere sarcastico, cinico, spietato con i miei personaggi. Né vincitori, né eroi. Tutti vinti. In fondo tutti vittime della “morale dell’ostrica” di Verghiana memoria. C’è chi ha detto che i miei personaggi sono stereotipi, senza spessore psicologico. Dal mio punto di vista questo non è affatto una “deminutio”, nel senso che i miei personaggi volutamente non sono riflessivi, semplicemente perché non sanno nemmeno cosa sia la riflessione o lo psicologismo. In questo senso sono più simili alle bestie che agli esseri umani: vivono di istinti primordiali, di sensi.
E di gente così ce n’è più di quanta pensiamo…
E poi mi piace il fatto di raccontare storie senza coinvolgimenti morali o psicologici da parte anche del narratore. Raccontare per raccontare. E per divertire. Punto. Poi ognuno si faccia le idee che vuole.
Io stesso ho parlato di Massimo Carlotto, vista la zona di provenienza, ma da un punto di vista narrativo, non mi sembra che abbia molto a che fare con te. Quali sono (oltre al già citato Sergio Leone) i tuoi riferimenti? La tua storia di lettore è affine a quella di scrittore? mi spiego: uno può scrivere quello che gli piace, nel senso di ciò che ritiene affine alla sua indole, cultura etc. Ma dall’altra parte si può anche scrivere ciò che si ritiene giusto scrivere, ciò che uno sente di dover scrivere, perchè dà un valore non solamente personale alla propria scrittura. Sergio Paoli, Carlotto, o Sandrone Dazieri per esempio secondo me rientrano nella seconda categoria (li possiamo definire scrittori impegnati?), mentre nella prima metterei un Landsdale e un McCarthy (ovvero autori che comunque ‘seguono il loro destino’). Tu a chi ti senti più vicino?
Stimo tantissimo Massimo Carlotto e trovo che sia davvero un ottimo scrittore. Ciò detto, io e lui viviamo letterariamente su due pianeti diversi. Carlotto e noiristi a parte, la stragrande maggioranza degli scrittori italiani è per così dire più impegnata a far riflettere che a raccontare. Più che narratori sembrano suore tout court e sacerdoti politici. Nella maggior parte della produzione letteraria nazionale infatti è quasi sempre sottesa una qualsivoglia denuncia sociale, una questione morale che faccia riflettere sul mondo che ci circonda. Io rifiuto questa base di partenza, nel senso che per mia parte voglio provare a fare qualcosa di diverso, qualcosa che non rientri nella solita snobistica concezione tipicamente italiana per cui “scrittori” sono soltanto i lirici e gli intimisti. Io desidero primariamente raccontare storie storie toste, poi se queste fanno anche riflettere qualcuno o in qualche misura riescono a sollevare dei temi di riflessione, bene, sennò va bene lo stesso. Alla lirica preferisco l’epica. Eppoi è importante anche che la mia storia diverta. Altra cosa infatti che francamente non sopporto davvero più è quello snobismo per cui molti autori intendono sempre rivolgersi ad un pubblico cosiddetto “alto”, salvo poi lamentarsi che non si vendono più libri. Ma io mi chiedo: se la cultura è per pochi, possiamo legittimamente parlare di
cultura? Per carità, i miei riferimenti sono altri, e sono da ricercarsi soprattutto oltreoceano: penso a Lansdale, appunto, a McCarthy e a tutti quegli autori tanto amati e citati dal movimento Sugarpulp.
Mi racconti anche se ti stai scrivendo qualcosa, che cosa, di che parla etc.?
Ho già pronto un altro racconto lungo, sostanzialmente si tratta di un horror-noir: una storia di formazione criminale raccontata in prima persona dal protagonista, il quale all’epoca dei fatti era un adolescente perdigiorno. L’anno della storia è il 1982, l’anno dei mondiali di Spagna e di tanta musica pop di successo. I luoghi sono quelli solari delle spiagge di Sottomarina e quelli oscuri e spettrali della laguna nera retrostante il porto di Chioggia, ai confini tra le province di Padova e Venezia.
E proprio in questi giorni ho iniziato a lavorare ad un terzo romanzo del mio filone “polenta-western”. E credo che ci sarà da divertirsi parecchio…
intervista pubblicata su Il Recensore
“Savana Padana”. Hard boiled nel nord est.
01/07/2009
Matteo è un ottimo scrittore. Invito chi mi legge a cercarlo su Sugarpulp, l’ottimo sito che costruisce insieme a Matteo Strokul. Questa è la recensione pubblicata su Il Recensore.
Già Massimo Carlotto ci aveva accompagnato durante notti sudate e senza scrupoli nel sottobosco malavitoso che si estende nella campagna del ricco nord est. Ora Righetto cammina sugli stessi sentieri, ed incontra la malavita del Brenta in Savana Padana. Sono argini che la cronaca nera ci ha raccontato lungamente in anni non lontani. Zingari, mafiosi cinesi, carabinieri corrotti, ed il caldo: un cocktail esplosivo che segna il destino di una piccola comunità, quella di San Vito Oltrebrenta, dove si svolge la trama. Il romanzo scorre liscio come le acque dei canale. Tratteggia i caratteri di malavitosi di altre epoche, e di altri mondi, che paradossalmente, giungono a guardarsi negli occhi solo sotto lo sguardo vigile e disincantato di Sant’Antonio da Padova, protettore di tutti e generatore di un mistico alone che pervade il romanzo intero. I personaggi sono talmente perfetti nel loro ruolo da assumere il carattere di stereotipi, diventano dei characters, delle maschere si potrebbe tradurre, visto che ci troviamo nella terra del Carnevale. Remus, l’anziano capo degli zingari, Chen il mafioso cinese (e come altrimenti poteva chiamarsi?), Pamela l’estetista un po’ puttana, e poi i malavitosi di paese: Il bestia, Nibale, Sante, Berto, e così via, fino all’apoteosi del comandante dei carabinieri, che non poteva che chiamarsi Fetente, di nome e di fatto.
Maschere, appunto, stereotipi di una realtà dove tutto è falso, o per lo meno dove nulla è vero, bensì tutto è simulacro del vero, come la statua del santo, nascondiglio dorato, ed oggetto del desiderio delle varie bande. Il tempo a San Vito Oltrebrenta è fermo, come Nane, che da trent’anni ripete la stessa frase, poiché in realtà sono già tutti morti. La morte li accompagna ogni giorno, ma per il semplice motivo che non si può vivere lì, solo i morti possono farlo, nessuno può sopravvivere alla disperazione. Disperazione radicale, che attanaglia, come l’aria calda e umida dell’estate in cui si svolge il racconto, e da cui non ci si può allontanare.
I personaggi di Savana Padana sono morti che camminano, è solo questione di tempo. Si può dire quindi che il libro ha quindi diversi livelli di lettura, tra l’altro ulteriore conferma del suo valore. Può essere trovato anche divertente: molti personaggi sono delle macchiette, e la quotidiana routine di un piccolo centro di campagna è presa in giro, ridicolizzata, permettendo a molti lettori di riconoscersi in questi stereotipi. Eppure se riusciamo ad essere di poco più sensibili degli zombie che popolano il testo avvertiamo l’intensa drammaticità di personaggi come le ragazzine cinesi, sfruttate e costrette alla prostituzione, oppure di Diamante, lo zingaro gay in cerca di una rivalsa. E’ una vecchia canzone di Gino Paoli la colonna sonora di questo finale.
Savana Padana quindi è un’opera assolutamente consigliabile, una lettura d’impatto e forte nei suoi contenuti, anche per la lettura sociale che viene sottesa. Aspettiamo presto un’altra prova così interessante da Matteo Righetto, che certo ne ha le capacità. !