La cura

08/11/2010

Nell’inserto domenicale de Il Sole 24 Ore del 3 ottobre è stato pubblicato un articolo a firma di Christian Raimo, che si cimenta in una contesa che implica dieci anni di polemiche e nodi, per rilanciare un dibattito “pubblico, che sia al tempo stesso politico e culturale” circa il vuoto che attanaglia la cultura italiana.
“Il vuoto è il disagio, la frustrazione, la mancanza di riconoscimento, l’impossibilità del conflitto, gli anni che passano, una generazione immobile. È l’aver a che fare con un meccanismo che potrebbe essere descritto in questi termini: la scelta che oggi si pone a uno scrittore, a un giornalista, a un intellettuale, a un semplice cittadino è questa: come posso vivere, fare esperienza, produrre arte, agire politicamente, ribellarmi, senza che tutto ciò si esaurisca in un gesto ininfluente? Come posso far sì che la mia attitudine critica, l’impegno civile, l’esperienza politica non sia una forma di intrattenimento, di mero consumo culturale, un passatempo come un altro?” Queste le parole di Raimo, e difficilmente si potrebbe esprimere meglio la condizione di chi – con mille sforzi e fatiche – prova ad occuparsi di cultura e/o di politica oggi in Italia.
Raimo di fronte a questo sconsolante stato di cose conclude tristemente che “fare politica si riduce a cliccare su Facebook”. Eppure, nonostante questa dichiarazione di scetticismo, invoca ed incita l’apertura di un dibattito: “vi va di dismettere quell’espressione di disincanto che vi si legge negli occhi?”
Come dire di no? E, difatti, questo avviene miracolosamente. In questo mese che è seguito alla pubblicazione dell’articolo si sono succeduti sul sito de Il Sole 24 Ore, su quello de La Repubblica e sul blog minima&moralia dell’editore minumumfax, interventi e commenti sul merito, a dimostrazione che quell’energia e quella volontà di cui parla Raimo probabilmente esistono, e che forse è possibile quel cortocircuito che potrebbe farle esplodere.
Ovviamente non mancherà mai chi – come Camillo Langone su Il Foglio – invece di appoggiare tout court un’iniziativa che non può apportare altro che beneficio, si limita all’ironia su “l’oscuro professore del liceo”, come se, peraltro, non fosse una professione di cui vantarsi!
In compenso importanti riscontri sono apparsi su Il Manifesto (di Pierluigi Sullo), su Il Riformista (di Luca Mastrantonio e Andrea Minuz), e si è parlato del caso a Ballarò, ad Anno Zero e a L’Infedele.
Ma tutto ciò, ci ricorda Giovanna Mancini su Il Sole 24 Ore,  non avrebbe la minima importanza senza gli interventi dei lettori e degli scrittori, che sono il sale di questo dibattito.
Tra i tanti, meritano una notazione gli interventi di Giusi Marchetta, Giorgio Fontana, e Antonio Pascale.
In particolare però spicca l’intervento di Giorgio Vasta, da molti considerato il più autorevole scrittore italiano vivente, che in una certa misura reimposta totalmente la questione.
Il suo articolo è uscito su La Repubblica in prima battuta e a seguire su minima&moralia. Vasta va oltre la tematica indicata dall’articolo di Raimo, ampliando l’orizzonte al modus percepiendi che la generazione in questione – la sua, quella di Raimo – ha di questa Italia, del proprio ruolo e senso. Se “avere quarant’anni significa […] penetrare finalmente nel tempo in cui ci si assume il compito di intervenire nelle cose” è evidente che gli appartenenti alla generazione in questione “siano percepiti, e si percepiscano, come abusivi che si aggirano clandestinamente per il paese”. Queste sono le durissime parole di Vasta – lapidarie – che inchiodano un gap generazionale che sta scavando un solco profondo e sanguinoso nella nostra storia.
Vasta quindi nella sostanza prende nettamente le distanze dalla posizione di Raimo, definendola “nostalgia di un altro presente.” Il vuoto in cui vivono i quarantenni, ovvero “la consapevolezza della propria ininfluenza”, è a suo dire indice di una subalternità, di un rimpianto inutile, della permanenza in uno stato infecondo, che non significa altro se non  “pretendere di parassitare un codice concluso”, quello che è un tempo definitivamente lontano: “la vita degli altri, è – appunto – degli altri.”
Quali alternative allora? Quali possibilità di riscatto?
Per Vasta, la rinuncia all’emancipazione vorrebbe dire accettare la propria precarietà come incurabile, in quanto noi siamo “inesorabilmente vittime […] di un infinito ergastolo filiale”. Qui fa uso della stessa metafora medica di Franco Berardi, che definisce la precarietà ed il cognitariato intellettuale come uno stato psicotico, (in “La nocività del lavoro cognitivo”, alfabeta2, n. 2, p. 35). L’alternativa è un’ottica su cui si focalizza l’intera prassi quotidiana, il peso di un intelletto generazionale, al  fine di “mutare postura psicologica”, per realizzare un’impresa, per realizzare un futuro.
Abbiamo visto che il nostalgico risentimento di Raimo viene interpretato da Vasta come il tentativo di riappropriarsi di un codice concluso, estinto. Difatti, è proprio la creazione di un nuovo “codice culturale non derivativo, un codice che riconnetta l’intelligenza delle cose alle azioni” ciò che deve essere chiarito come un paradigma, perché è una frattura epistemologica che è in corso: solo così è possibile “diventare adulti senza chiedere il permesso”. Questa generazione – pare dirci Vasta – proprio perché è quella che ha perso tutto in termini di privilegi e diritti acquisiti, ha la grande opportunità di rifondare “il puzzle della propria esperienza”, ignorando qualsiasi tipo di indicazione e di riferimento, proprio perché non deve nulla a nessuno, senza un progetto, senza un programma, “ignorando la figura ultima a cui si sta dando forma”.
Solo recuperando, quindi, il vero valore di un’eredità (sia nel suo esserci che nel suo mancare), e soprattutto riscattandosi da una subordinazione che è solo un fantasma evanescente, ci si rivolge verso “l’unico esito possibile. […] per decidere il proprio patrimonio etico e politico”.
Una posizione, quella di Vasta, che si pone su un piano totalmente trasversale rispetto a quello rivendicativo sindacale, che molte componenti della galassia precarietà vivono come l’unico possibile.
D’altro canto, non manca nemmeno in Raimo una riflessione circa l’inadeguatezza dei metodi tradizionali per affrontare la questione. In un articolo uscito il 27 ottobre su minima& moralia e intitolato significativamente “Introiezione del conflitto”, Raimo in sostanza analizza l’impostazione sociale, generatrice e vitalistica di Vasta, per rammentare il processo di auto-colpevolizzazione, il tentativo di risoluzione nella terapia analitica, e l’estrema difficoltà di ottenere quei risultati apparentemente minimali di autostima, costruzione di una identità familiare propria, legittimazione dei propri desideri, allontanamento dei sensi di colpa, che – in un mondo diverso – sarebbe sfociata in un generale conflitto sociale, o per lo meno nella creazione di una classe. Raimo è radicale: “la schizofrenia è esattamente, precisamente, il modello dei rapporti di lavoro che ci interessano. La schizofrenia è il sostituto psicotico del conflitto di classe”.
Torniamo inesorabilmente al concetto espresso da Franco Berardi: la precarietà è una malattia, una psicosi, una forma di schizofrenia, dove la distinzione tra tempo di lavoro e tempo della vita viene abolita, e dove l’estrema difficoltà esistente nel ricongiungere i propri frammenti provoca una dispersione psicotica dell’Io, con conseguenze anche drammatiche (pensiamo, ad esempio, alle catene di suicidi della Renault).
Ma anche Raimo, infine, pone gli stessi quid di Vasta. Perché il disagio interiore rimane dispositivo clinico, cronicizzazione del malessere senza esplodere nel conflitto sociale? Perché non si forma una coscienza di classe? Perché ciò che è sempre stato un diritto oggi è al massimo una supplica?
Raimo collega quella che lui chiama una “diffusa anestesia” alla forma carnevalesca, trasgressiva e distruttiva assunta dal potere berlusconiano. Certo, la simbologia forte che caratterizza questo regime, basata sui dati propri del corpo, la virilità, lo sfruttamento e l’indifferenza, ha una sua valenza precisa, e certamente se il referente storico di Berlusconi è Mussolini, il suo vero critico è il marchese de Sade, maestro unico nel mostrare l’estraneazione capitalistica del potere, dove il corpo diventa puro fantoccio, buono solo a morire, dopo le sevizie e le violenze.

Eppure – forse Vasta potrebbe concordare – l’anarchica rivolta verso il corpo del re non è impensabile. Salò è finita come è finita, il marchese è morto in galera e Mussolini è finito a testa in giù.
“In un tempo in cui le ascisse si mescolano con le ordinate, i conti non tornano mai e siamo tutti immersi in un vortice che scompagina presupposti e aspettative” – chiosa Vasta – i naturali desideri e le innate ambizioni ad una vita degna, civile e serena, se non diventano un orizzonte lontano e indistinto, possono essere nuovamente ereditati, nella speranza – conclude Raimo – che “non vengano vinto-appagati nell’immediato, introiettati, medicalizzati, in pratica rimossi”, ma che si rivelino “potenti, arrivando a creare qualcos’altro”.

Pubblicato su Precarie Menti

Giorgio Vasta # 2

21/01/2010

Sono passate poche settimane dalla mia pubblicazione di un piccolo excursus a proposito di Giorgio Vasta (che trovate qui). Questo brano ha poi preso vita propria, ed ha proseguito il suo cammino, fino ad essere letto dall’amica Barbara Gozzi, che lo ha inserito in un suo articolo molto più ampio e documentato a proposito dello scrittore siciliano.
Ringrazio Barbara ancora una volta e inserisco i link alle due sezioni dell’articolo, che invito a leggere con attenzione, poiché si tratta di una delle disamine più precise che ho letto a proposito de “Il Tempo Materiale”.

http://www.agoravox.it/attualita/cultura/article/di-un-giorgio-vasta-alcuni-11181

http://www.agoravox.it/attualita/cultura/article/di-un-giorgio-vasta-alcuni-11182

 

Ieri, alla libreria Utopia di Milano, Giuseppe Genna ha presentato Giorgio Vasta ed il suo romanzo, edito da Minimum Fax, “Il tempo materiale“.
Premesse importanti: Giorgio Vasta è un esordiente, anche se in realtà è molto che lavora nel settore, il romanzo è uscito un anno fa, ha ricevuto una lunga lista di critiche più che positive, infine io non ho (ancora) letto il romanzo.
Infatti non ne parlerò.
Vorrei parlare dell’impressione, profonda e viscerale, che ha lasciato in me Giorgio Vasta.
Servono degli strumenti metodologici: quando frequentavo le aule universitarie, il compianto professor Fergnani, docente di Filosofia Morale, cercava di mostrarmi come affrontare un testo, e nel fare ciò sottolineava la intima necessità di ogni singola parola in un preciso contesto. Ogni parola aveva quindi un suo ‘luogo naturale’, un suo domicilio eletto, in cui – e solo li – assumeva appieno il suo valore, il suo senso, il suo stesso scopo intrinseco. Il fonema, il suono, si riconosce nel contesto in cui viene espresso, e li trova la sua autenticità. Se comprendi appieno la logica interna del linguaggio (proprio dell’autore) capisci come e perchè in quel punto del ragionamento non ci poteva essere altro che quel termine, e quindi diventa trasparente anche l’obiettivo del ragionamento stesso, che a quel punto si dispiega come un sentiero nella foresta.
Sono quindi diventato molto esigente dal punto di vista del linguaggio. Considerando i miei (numerosi) limiti cerco di ottenere in ciò che scrivo una certa precisione terminologica, alla luce della convinzione per cui il linguaggio nasconda e disveli contemporaneamente la verità ontologica delle cose stesse. Nominarle per cui assume un valore mitopoietico e demiurgico, oltre che epistemologico.

Questa arte di cui vi sto parlando è compiuta da Giorgio Vasta in una maniera ssolutamente superba. Ascoltare il suo dire è stato per me un fenomeno in prima battuta fisico. La sua costanza e la sua cadenza, nel momento in cui si sbilancia, nello sguardo e nell’intelletto, ad accogliere il termine dovuto in quel momento ed in quel luogo, sono state un respiro di pulizia filosofica.
Come in una fresca mattina invernale, se sei in montagna, l’aria pulisce il cielo e segna la pelle, per il freddo, così la parola di Giorgio Vasta sgombra nettamente il campo da ogni più picolo equivoco, tale è la pulizia della sua espressione, ma contestualmente segna, e taglia, perchè il suo dire è vicino al vero, e non lascia spazio agli agenti della mediazione e del compromesso.
Durante la serata Giorgio Vasta ha parlato a lungo, con un evidente desiderio di spiegare e trasmettere nel modo migliore possibile ciò che riteneva fosse scritto nel suo romanzo.
Solo in pochissime occasioni (due o tre) ha utilizzato riferimenti di tipo ‘culturale’, ovvero ad altre opere letterarie o filosofiche, rammento una citazione de “la montagna incantata“, una del Talmud ed una scrittrice bosniaca.
Ogni altro esempio, ogni altro concetto, è stato trasposto utilizzando gli oggetti.
Quegli stessi oggetti sottostanti al suo potere demiurgico, e rivelati dal linguaggio e dall’oralità.
Ma la cosa – per me – devastante, è stata l’insorgenza continua nel suo dire del background che ha portato ai concetti in quel contesto espressi. Continuamente apparivano in controluce – come ombre cinesi – oppure in dissolvenza, come nel montaggio di un film, Foucault, Baudrillard, Debord, Deleuze, ed ancora, ancora più sullo sfondo, Platone, Aristotele, Eschilo, e Kant, Spinoza, Levinas. Era come stare in una sala dove tutti costoro erano presenti, per contribuire, ognuno per la loro parte, al suo dire.
La storia del mondo parla per bocca di Giorgio Vasta.
Ovvio che detto così sembra solo una frase ad effetto, ma se così non fosse non avremmo quella percezione di qualcosa di epocale, di unico, che invece perviene dal suo dire.
Come dice Giuseppe (Genna): la nostra generazione, questa Italia, si riflette in quest’opera.
Non lo so, lo scriverò appena letto il libro.
Certo comprendo meglio ora le considerazioni in merito fatte da Genna stesso e da Giulio Mozzi.
Eppure ancora più che altro mi afferro al linguaggio.
Dalla pubblicazione del romanzo si parla del valore linguistico dell’opera di Giorgio Vasta, ma non mi sembra di aver letto nulla sulla sua grandezza come cantastorie, come affabualatore – complice il suo essere picaresco.
Come Omero, racconta le storie del mondo, e le rende vere.
Come Don Chisciotte traduce in se il mondo intero.

Comunque vada la lettura de “Il tempo materiale”, già da ora posso solo ringraziare Giorgio Vasta per gli orizzonti di potenzialità che mi ha mostrato. Non credo che esista una letteratura attuale, ma questo testo ha le carte in regola per voltarsi nella direzione giusta.