Dopo la scomparsa di Tiziano Terzani, Ettore Mo probabilmente è rimasto l’ultimo rappresentante di un giornalismo sul campo che vede il suo simbolo nella figura dell’inviato speciale, o del reporter.
La sua biografia è nota: dopo un adolescenza burrasacosa e vagabonda, approda alla redazione londinese del “Corriere della sera” dove fu assunto nel 1962.
Nel 1979, all’età di quarantasette anni, dopo aver lavorato come critico musicale e sportivo per quindici anni, fu inviato nell’Iran della rivoluzione Khomenista e – poco dopo – nell’Afghanistan dell’invasione sovietica.
Dopo di che per vent’anni è stato un inviato speciale ed ha avuto il privilegio di essere testimone di molte tra le guerre e le tragedie che hanno funestato il tramonto del secolo scorso.
Nella prefazione al suo ultimo volume, “Lontani da qui. Storie di ordinario dolore dalla periferia del mondo”, edito da Rizzoli, come quasi tutti i suoi titoli, Ettore Mo ci racconta anche di questo suo primo viaggio in Afghanistan. In quel viaggio nacque un affetto particolare, tra il giornalista e quel paese. Predilezione che lo portò a ritornarci parecchie volte, a renderlo argomento di almeno tre libri, e a diventare un amico personale del comandante Amhad Sha Massoud,il leone del Panshir ed eroe della resistenza anti sovietica.

Assassinato probabilmente da Al-Qaeda il giorno antecedente all’attacco delle Twin Towers, la sua scomparsa ha lasciato un vuoto carismatico che nessuno degli altri leader regionali è riuscito a riempire.
Oggi Ettore Mo è un giornalista pluripremiato, con una numerosa bibliografia, anche se è principalmente formata dalle raccolte dei suoi articoli, più che da opere inedite. Quest’ultimo testo non si differenzia, e racconta di dieci paesi sparsi per il mondo, corrispondenti a dieci guerre, a dieci dolori.
La lettura scorre per la piacevolezza della prosa dell’autore, anche se spesso il coinvolgimento è tale che bisogna fermarsi, prima di procedere, per accettare la dura realtà di quanto il mondo possa essere crudele. Dalle favelas di Caracas alla paura di Kabul, dal dramma innominabile della Liberia fino alla nube de La Oroya, cittadina avvolta da un’apocalittica polvere di piombo, zinco, zolfo e arsenico emessa dalla “fonderia della morte”, questi sono i piccoli grandi orrori che Ettore Mo ci racconta da trent’anni, da quel lontano 1979, in cui è arrivato a Kabul.
Ma la parte che per noi oggi assume il maggior rilievo, il sassolino che Ettore Mo si è voluto togliere, invecchiando in quest’Italia meschina, lo si trova nella conclusione.
Qui il vecchio leone, che ha visto il dolore e la morte intorno a se, ci ricorda che in questa sofferenza si trova il perché di questo mondo perduto che in realtà non è ‘lontano da qui’, ma bussa alle nostre porte. A Lampedusa, in Sardegna, in Spagna, in Sicilia, ovunque possa attraccare un barcone, una zattera carica di profughi.
Quasi in un simbolico passaggio di consegne Ettore Mo cita “Bilal” il reportage di Fabrizio Gatti, giornalista che si è travestito da immigrato ed è entrato clandestinamente in Italia, partendo dal Niger ed attraverso la Libia. Come il vecchio reporter entrava in Afghanistan clandestinamente, di notte, per sfuggire ai sovietici prima, ed ai taliban poi.
L’unica strada per concludere dignitosamente questo triste percorso, sembra dirci Ettore Mo, non può essere altro che nella poesia, e, proprio nelle ultime righe, ricorda dei versi di Ada Merini, ma subito dopo è costretto ad ammetterer che la poesia stessa è solo sogno, illusione, “e così migliaia di uomini sono colati a picco, in fondo al mare”.

Una versione leggermente diversa di questo post è stata pubblicata su Il recensore.

UDINE — La tua bambina, gli ha detto il dottor De Monte. E non c’è stato bisogno di dire molto altro, perché non l’aveva mai chiamata così. Beppino Englaro ha capito cosa c’era dietro quel gesto di sensibilità, ha pensato a Saturna che sta sempre più male, a come dirglielo. E ha pianto, cos’altro poteva fare un padre che ha appena perso la sua unica figlia, che si prepara a rimanere solo per il tempo che gli rimarrà? «Ci ha lasciato, adesso voglio stare da solo» ha detto, e a noi che lo chiamavamo in continuazione riusciva di percepire non più di qualche frase in mezzo alle lacrime. Piange Beppino Englaro, che si è impedito di farlo per diciassette anni, che nelle foto di quel 1992, le ultime con sua figlia viva, appare quasi in carne, con i lineamenti rotondi. La durezza fredda che si è imposto per andare avanti si era trasmessa anche alla sua faccia, diventata quasi una maschera metallica, le occhiaie di chi non dorme e abita perennemente un incubo, il profilo sempre più aguzzo. Sua figlia cambiava, il suo corpo si rattrappiva, anche Beppino lo faceva, dentro e fuori. «Sarebbe l’arma atomica, lo so. Vedendo le foto di Eluana com’è oggi, tante persone starebbero finalmente in silenzio. Ma non lo farò mai». Ancora ieri mattina ci ha parlato così, riferendosi all’unico tabù che conservava per se stesso. «Vede, ormai, al punto in cui sono arrivato posso avere contro anche il mondo intero, e non me ne importa nulla. C’è solo una cosa che mi renderebbe debole e bucherebbe la corazza che mi sono costruito. Io non posso avere contro Eluana Englaro». C’era, c’è stata in tutti questi anni, un’altra promessa nascosta, l’ultimo segreto tra un padre e una figlia, qualcosa da custodire in silenzio. «Quando tornò dall’ultima visita al suo amico in coma, mi disse che non avrebbe mai voluto rimanere in quello stato. E mi fece promettere che se fosse successo mai avrei dovuto mostrarla in quelle condizioni». La promessa a una figlia vale più di ogni cosa, di ogni ingiuria, insulto, di qualunque «Beppino boia» sentito gridare in diretta al telegiornale, cinque minuti dopo che De Monte ti ha detto che Eluana non c’è più. Sarebbe bastato davvero poco. Raccontare le palpebre perennemente a mezz’asta sugli occhi, le pupille vuote, il naso che sembrava sproporzionato su una faccia che si era rinsecchita come il resto del corpo. Pesava meno di 40 chili, Eluana. Le braccia e le gambe erano rattrappite, poteva giacere solo di lato perché a pancia in su rischiava di soffocare per i liquidi che salivano da uno stomaco atrofizzato e incapace di trattenerli. Era appoggiata sul lato destro del corpo e questo le causava spesso piaghe da decubito sulla guancia, le lacerazioni di una pelle che si fa di carta velina, quelle che ai vecchi vengono sul sedere o sulla schiena, lei ce le aveva anche in faccia. Gli ispettori del ministro Sacconi, nella hall dell’albergo, prima di tornare a Roma, non riuscivano a togliersi dalla testa l’immagine del corpo di Eluana. Sarebbe bastato poco, davvero. Ma non è un boia, Beppino Englaro. È un uomo che ha smesso di vivere insieme alla figlia, tanto tempo fa, che ha scelto di morire ogni giorno, insieme a lei. Chiunque ci abbia passato cinque minuti insieme sa quali abissi di dolore nascondevano quelle occhiaie, sempre più marcate in un profilo ogni giorno più affilato. Sa com’era difficile sostenere lo sguardo di quest’uomo che non voleva si scrivesse delle sue debolezze, dei suoi momenti di sconforto. Un padre annientato che si è fatto carico della volontà della figlia, scegliendo la strada più dura da seguire in un posto come l’Italia, combattere a mani nude, senza mai chiedere a un dottore di adottare un sotterfugio di morte, come avviene nelle corsie di tutta Italia. «Adesso — riesce a dire al telefono — so che qualcuno si scatenerà contro i dottori che hanno seguito Eluana. Voglio che si sappia che sono io l’unico responsabile, sono io che ho portato questa storia fin qui. Agli amici, e ne ho trovati tanti in questi anni, chiedo di non preoccuparsi per me. Non voglio essere cercato, ho bisogno di stare solo. Avrei liberato il corpo di Eluana, che ormai era diventato ostaggio di mani altrui». È a Lecco, Beppino Englaro, dove oggi avrebbe dovuto partecipare a un processo in cui gli volevano togliere la patria potestà. Cerca di ricomporsi, al telefono con il colonnello che lo chiama per le condoglianze e poi gli annuncia che appena entrato in Friuli gli verrà assegnata una scorta, «perché sa, la situazione è particolare». Beppino lo ha ascoltato dicendo dei «sì» cortesi, con voce bassa. «Non so ancora a che ora parto, devo prima vedere com’è la situazione di mia moglie» ha detto. Senza farlo pesare, che c’è un’altra tragedia nella sua vita, che oggi lui muore con Eluana ma il suo calvario non finisce. Si sente il rumore di un treno che passa, la casa degli Englaro affaccia su una ferrovia. «Si figuri colonnello, non darò nell’occhio, glielo prometto. Sono un po’ disorientato, ho bisogno di sedermi». La scorta, come un delinquente che ha fatto qualcosa di malvagio. L’ultima umiliazione, per un uomo che giorno dopo giorno ha scontato l’inferno peggiore, vedere una figlia che sorride solo da foto remote. Ci sarà il funerale, non finiranno le vane parole. «Devo restare solo, ho bisogno di respirare». Chi lo conosce sa che questa non è una liberazione, non per lui. «Avevo fatto una promessa» dice. L’ha mantenuta, anche se in questi anni la sua ragione di vita è rimasta appesa a sua figlia. «Mi sento spaesato. Devo rimanere solo, ho tante cose a cui pensare» è il suo congedo. Sono in tanti quelli che pensano che in fondo non voleva che sua figlia se ne andasse. «Certo che soffrirò, ma cosa c’entra?». Era tutto per lei, non per me, ripete, e la voce si fa tenue. «Ho sopportato molto, in questi anni». Ma doveva andare avanti, dice, dovevo mantenere la promessa. E infine liberarla, la sua bambina.

Marco Imarisio
10 febbraio 2009