E’ evidente che i tempi sono maturi. In questi giorni, e in contesti differenti, sono stati pubblicati alcuni testi che impongono, per la loro pregnanza, una precisa riflessione. Mi riferisco principalmente alla nota di Franco Berardi,  intitolata Cosa insegno quest’anno a Brera , all’articolo di Valerio Evangelisti pubblicato su Carmilla,  Dal Wisconsin al NordAfrica e all’articolo di Sergio Bologna Il lavoro cambia. E allora che si fa?

Queste pubblicazioni emergono in un panorama dove le interpretazioni e le analisi sullo stato della conflittualità sociale e sulle sue modalità espressive sono almeno quotidiane. I social network e i blog, ma anche il mondo accademico e il giornalismo più sensibile, i sindacati e le parti sociali, ciò che resta dei partiti e il mondo intellettuale, ovunque ci si interroga, e si cerca di comprendere la densità degli eventi in corso. L’articolo di Evangelisti in particolare costituisce – in un certo senso – i prodromi della nota di Bifo. E’ come se Evangelisti si fosse occupato dell’analisi strategica, e – a seguire – Bifo avesse descritto le conseguenze tattiche. Questa consequenzialità non è così lineare come vorrei farla apparire – mi rendo conto – ma esiste una contiguità, dettata dal comune approccio movimentista. Sospendo momentaneamente la questione delle implicazioni di questo termine, e mi limito a indicare la comune opposizione  alla forma partito sostenuta da chi si riconosce in questa definizione. Evangelisti sostiene esplicitamente la correlazione tra i molteplici movimenti di rivolta in atto, dal Midwest fino al Maghreb e al Medio Oriente, passando per l’intera Europa, sia mediterranea che continentale, e che questo filo rosso unificante sia identificabile con l’appartenenza ad una stessa classe.

“Nessuno riesce a formulare un’analisi di classe. L’unica che potrebbe tenere insieme, in un medesimo quadro interpretativo, le rivolte […] Siamo in presenza di un nuovo 1967-68. Una ribellione mondiale contro le imposizioni capitalistiche.”

Il concetto è diretto e lascia pochi spazi alle interpretazioni. La teoria esposta da Evangelisti vede nel moderno capitalismo globalizzato e nelle corporation l’espressione politico – militare di una dottrina economica, il monetarismo. Questo sarebbe una forma degenerata, una specie di mutazione genetica del principio keynesiano della centralità del debito pubblico rispetto alla produzione industriale. Conseguenza diretta della omogeneizzazione del capitale su scala mondiale sarebbe un’operazione speculare nella configurazione delle classi sociali, e questo lo porta a sostenere che i lavoratori del pubblico impiego del MidWest, i precari italiani, i ribelli libici o egiziani, rispondono tutti alla stessa logica di opposizione a un nemico unico, e proprio per questo apparterrebbero tutti alla medesima classe sociale, la classe subalterna. Il concetto di Classe nella dottrina marxista ha una sua precisa determinazione storica, e alle classi corrispondono delle modalità della produzione, e un rapporto preciso con la proprietà dei mezzi di produzione stessi. Evangelisti a questo proposito utilizza un concetto – quello di classe subalterna – che non è organico alla composizione sociale, ma è chiaro che il suo obiettivo è di porre un problema di ordine politico, una considerazione di ordine mitologico e narratologico, piuttosto che economica. Ma anche esulando da una lettura tecnica, come può avvenire questo? Ricondurre ogni processo sotto un unico modello interpretativo significa decontestualizzarlo, estrarre i personaggi dalla scena e renderli  astorici. Non vi è più alcun legame con le condizioni specifiche e contingenti della produzione, ma solo un emanazione di stampo teologico. Il capitale e la classe diventano i due poli di un manicheismo, mentre la complessità delle relazioni oggi inerenti alle forme di produzione rimanda ad una rete di connessioni, e a un legame ben più articolato dell’opposizione semplice. Il capitale si realizza nella sua dialettica. Il capitale è oggi indefinito, illimitato e essenzialmente s-terminato, assolutamente trascendente nella sua immanenza assoluta, ovvero sempre ‘altro’ da ciò in cui viene identificato. Il capitale, nel suo essere ossimoro, “[…] rimodella di continuo le classi subalterne, a seconda delle necessità”.  E qui Evangelisti si ferma, riconoscendo che questo processo continuo di reciproca influenza e trasformazione sia dei bisogni che della produzione, pur producendo “plusvalore, diretto o indiretto”, comporta che le classi subalterne “non si riconoscano in un’unica compagine portatrice di rivendicazioni”. Ovvero: la coscienza di classe, il riconoscimento, la ricomposizione del proletariato in un soggetto politico, è impossibile, proprio perché l’azione costantemente smarcante e metamorfica del capitale crea un debordiano spaesamento, uno slittamento del senso e del valore che impedisce l’unificazione dei progetti rivoluzionari. Fine del sogno, l’analisi politica a questo punto è conclusa. Che fare? Berardi riprende il cammino esattamente da questo punto, dove Evangelisti si interrompe. Come si risolve la questione del riconoscimento di classe?  La risposta è molto precisa: non si risolve in se, ma esiste un soggetto che è deputato a svelare ciò che è ancora da portare alla coscienza, ovvero l’intellettuale. Bifo va a Brera a insegnare ai suoi studenti come si organizza un’insurrezione, perché è l’unica cosa di cui – in quanto intellettuale – può parlare. Di cui si deve parlare. Esistono quindi i maestri, ammettendo così implicitamente il senso e la necessità della forma partito, da un lato, e riproponendo il senso di un ruolo, quello dell’intellettuale organico che è depositario di un compito storico, con una importantissima tradizione in Italia, per cui costui deve anche rischiare la vita, e questo compito è “organizzare l’insurrezione”. La storia della sinistra in Italia è la storia di questi quesiti. Il rapporto tra masse e avanguardia, e il rapporto tra intellettuali e organizzazione politica. Oggi il dibattito, rispetto a Gramsci, ad esempio, ha preso ovviamente un taglio differente. Gli intellettuali sono noti come Knowledge workers, e il loro rapporto con la forma lavoro è decisamente variato. Soprattutto perché è nata e si è sviluppata quella che ormai è nota come produzione intellettuale. Oggi esistono le condizioni perché questo organo del corpo sociale assuma coscienza di se e si esprima, anche militarmente, per provocare la caduta della dittatura finanziaria che governa il mondo occidentale. Gli intellettuali hanno il compito storico di riconoscervisi o di prenderne le distanze. Il tempo dell’ignavia è decisamente finito.  Questo in sostanza è ciò che si dice Bifo. Il confronto che il futuro ci propone è quindi essenzialmente militare: siamo completamente usciti dal piano narrativo simbolico in cui ci tratteneva la strategia di Evangelisti. Non si parla di eroi o di mitologia. Ora si parla di scontro, di rischio, di vita e di futuro. Bifo parla di rivolta, e sa di cosa parla, contrariamente alla maggior parte dei suoi uditori, che lo adulano senza comprenderlo. Le sue parole sono le pietre della prossima intifada, quella delle vie di Milano e Parigi. Eppure qualcosa non funziona, ed è evidente. In prima istanza perché non esiste nel mondo accademico nemmeno una parvenza di quella coesione che è indispensabile al pensiero di Bifo, e a seguire perché nonostante i collegamenti mostrati da Evangelisti, le classi lavoratrici non si pongono in alcun modo come antagoniste globali, bensì operano su di un piano estremamente localizzato e specifico. Il territorio non è il mondo, ma la provincia, se non il comune. Quel processo che Sergio Bologna racconta in atto sin dagli anni sessanta, di deframmentazione della classe operaia sul territorio, allo scopo di indebolirla, è da tempo realizzato, e il decentramento produttivo, l’esternalizzazione, e l’accelerazione subita con l’introduzione delle nuove tecnologie, sono realtà quotidiana, ciò che pomposamente è nota come globalizzazione. Insomma, per dirla sempre con Bologna, “il lavoro non crea più identità”. Ma questo accade anche per il lavoro intellettuale? Si, conferma Sergio Bologna, e difatti è proprio tra i colletti bianchi e i Knowledge workers che nascono le prime forme di precariato. E’ la classe culturalmente più avanzata, ovvero quella più pericolosa, ad essere colpita nel modo più duro dalla trasformazione del mondo del lavoro, dal pacchetto Treu e dalla legge 30. Di conseguenza dovrebbe essere, pare dire Bifo, quella che reagisce nel modo più radicale. Non credo che la trasformazione nel cosiddetto lavoro cognitivo autonomo, proposta da Bologna e Fumagalli, possa rappresentare una soluzione globale delle questioni poste dalla situazione politico economica, ma non credo che nemmeno loro lo pensino. E’ certamente un canale per ridare dignità e potere ad un ambito sociale ridotto ai minimi termini da trent’anni di sconfitte (parto dalla FIAT 1980), ma certo non è un percorso condivisibile con l’intero mondo del lavoro, così profondamente ferito. Aggregazione, autotutela, consapevolezza, creare sinergie, condividere, sono quindi parole d’ordine che percorrono sotterranee questi differenti orizzonti strategici. Eppure la rete, con le decine e decine di siti, blog, pagine, account che solo in questi ultimi anni (diciamo a partire da Genova, ma in particolare nei tempi recentissimi), realizza concretamente e rapidamente (con tutti i suoi limiti, lo sappiamo) proprio queste esigenze. Forse dietro non si trova una strategia politica, e nemmeno una spiegazione filosofica e/o economica. Però funziona. L’aggregazione in rete funziona, e noi di Precarie Menti, ne siamo solo un esempio. Non credo che serva rischiare la vita. La rivoluzione oggi la si fa in ben altri modi. Penso che una costante e puntuale presenza sia una spina nel fianco molto più dolorosa. Lavorare per condividere e coinvolgere, giorno dopo giorno, persona dopo persona, in attivismi concreti e localizzati. Battaglie precise, da vincere. Combattere i simboli e le persone nella loro specificità, per nome e cognome, e proponendo sempre alternative. Controinformazione capillare, presenza sul territorio, rapporti uno a uno. Questo la rete lo consente, chi vuole può farlo, e a maggior ragione dovrebbero farlo i dinosauri della sinistra italiana. La prossima volta, sulle barricate, avremo tutti un mouse.

Articolo originariamente pubblicato su Precarie Menti

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La cura

08/11/2010

Nell’inserto domenicale de Il Sole 24 Ore del 3 ottobre è stato pubblicato un articolo a firma di Christian Raimo, che si cimenta in una contesa che implica dieci anni di polemiche e nodi, per rilanciare un dibattito “pubblico, che sia al tempo stesso politico e culturale” circa il vuoto che attanaglia la cultura italiana.
“Il vuoto è il disagio, la frustrazione, la mancanza di riconoscimento, l’impossibilità del conflitto, gli anni che passano, una generazione immobile. È l’aver a che fare con un meccanismo che potrebbe essere descritto in questi termini: la scelta che oggi si pone a uno scrittore, a un giornalista, a un intellettuale, a un semplice cittadino è questa: come posso vivere, fare esperienza, produrre arte, agire politicamente, ribellarmi, senza che tutto ciò si esaurisca in un gesto ininfluente? Come posso far sì che la mia attitudine critica, l’impegno civile, l’esperienza politica non sia una forma di intrattenimento, di mero consumo culturale, un passatempo come un altro?” Queste le parole di Raimo, e difficilmente si potrebbe esprimere meglio la condizione di chi – con mille sforzi e fatiche – prova ad occuparsi di cultura e/o di politica oggi in Italia.
Raimo di fronte a questo sconsolante stato di cose conclude tristemente che “fare politica si riduce a cliccare su Facebook”. Eppure, nonostante questa dichiarazione di scetticismo, invoca ed incita l’apertura di un dibattito: “vi va di dismettere quell’espressione di disincanto che vi si legge negli occhi?”
Come dire di no? E, difatti, questo avviene miracolosamente. In questo mese che è seguito alla pubblicazione dell’articolo si sono succeduti sul sito de Il Sole 24 Ore, su quello de La Repubblica e sul blog minima&moralia dell’editore minumumfax, interventi e commenti sul merito, a dimostrazione che quell’energia e quella volontà di cui parla Raimo probabilmente esistono, e che forse è possibile quel cortocircuito che potrebbe farle esplodere.
Ovviamente non mancherà mai chi – come Camillo Langone su Il Foglio – invece di appoggiare tout court un’iniziativa che non può apportare altro che beneficio, si limita all’ironia su “l’oscuro professore del liceo”, come se, peraltro, non fosse una professione di cui vantarsi!
In compenso importanti riscontri sono apparsi su Il Manifesto (di Pierluigi Sullo), su Il Riformista (di Luca Mastrantonio e Andrea Minuz), e si è parlato del caso a Ballarò, ad Anno Zero e a L’Infedele.
Ma tutto ciò, ci ricorda Giovanna Mancini su Il Sole 24 Ore,  non avrebbe la minima importanza senza gli interventi dei lettori e degli scrittori, che sono il sale di questo dibattito.
Tra i tanti, meritano una notazione gli interventi di Giusi Marchetta, Giorgio Fontana, e Antonio Pascale.
In particolare però spicca l’intervento di Giorgio Vasta, da molti considerato il più autorevole scrittore italiano vivente, che in una certa misura reimposta totalmente la questione.
Il suo articolo è uscito su La Repubblica in prima battuta e a seguire su minima&moralia. Vasta va oltre la tematica indicata dall’articolo di Raimo, ampliando l’orizzonte al modus percepiendi che la generazione in questione – la sua, quella di Raimo – ha di questa Italia, del proprio ruolo e senso. Se “avere quarant’anni significa […] penetrare finalmente nel tempo in cui ci si assume il compito di intervenire nelle cose” è evidente che gli appartenenti alla generazione in questione “siano percepiti, e si percepiscano, come abusivi che si aggirano clandestinamente per il paese”. Queste sono le durissime parole di Vasta – lapidarie – che inchiodano un gap generazionale che sta scavando un solco profondo e sanguinoso nella nostra storia.
Vasta quindi nella sostanza prende nettamente le distanze dalla posizione di Raimo, definendola “nostalgia di un altro presente.” Il vuoto in cui vivono i quarantenni, ovvero “la consapevolezza della propria ininfluenza”, è a suo dire indice di una subalternità, di un rimpianto inutile, della permanenza in uno stato infecondo, che non significa altro se non  “pretendere di parassitare un codice concluso”, quello che è un tempo definitivamente lontano: “la vita degli altri, è – appunto – degli altri.”
Quali alternative allora? Quali possibilità di riscatto?
Per Vasta, la rinuncia all’emancipazione vorrebbe dire accettare la propria precarietà come incurabile, in quanto noi siamo “inesorabilmente vittime […] di un infinito ergastolo filiale”. Qui fa uso della stessa metafora medica di Franco Berardi, che definisce la precarietà ed il cognitariato intellettuale come uno stato psicotico, (in “La nocività del lavoro cognitivo”, alfabeta2, n. 2, p. 35). L’alternativa è un’ottica su cui si focalizza l’intera prassi quotidiana, il peso di un intelletto generazionale, al  fine di “mutare postura psicologica”, per realizzare un’impresa, per realizzare un futuro.
Abbiamo visto che il nostalgico risentimento di Raimo viene interpretato da Vasta come il tentativo di riappropriarsi di un codice concluso, estinto. Difatti, è proprio la creazione di un nuovo “codice culturale non derivativo, un codice che riconnetta l’intelligenza delle cose alle azioni” ciò che deve essere chiarito come un paradigma, perché è una frattura epistemologica che è in corso: solo così è possibile “diventare adulti senza chiedere il permesso”. Questa generazione – pare dirci Vasta – proprio perché è quella che ha perso tutto in termini di privilegi e diritti acquisiti, ha la grande opportunità di rifondare “il puzzle della propria esperienza”, ignorando qualsiasi tipo di indicazione e di riferimento, proprio perché non deve nulla a nessuno, senza un progetto, senza un programma, “ignorando la figura ultima a cui si sta dando forma”.
Solo recuperando, quindi, il vero valore di un’eredità (sia nel suo esserci che nel suo mancare), e soprattutto riscattandosi da una subordinazione che è solo un fantasma evanescente, ci si rivolge verso “l’unico esito possibile. […] per decidere il proprio patrimonio etico e politico”.
Una posizione, quella di Vasta, che si pone su un piano totalmente trasversale rispetto a quello rivendicativo sindacale, che molte componenti della galassia precarietà vivono come l’unico possibile.
D’altro canto, non manca nemmeno in Raimo una riflessione circa l’inadeguatezza dei metodi tradizionali per affrontare la questione. In un articolo uscito il 27 ottobre su minima& moralia e intitolato significativamente “Introiezione del conflitto”, Raimo in sostanza analizza l’impostazione sociale, generatrice e vitalistica di Vasta, per rammentare il processo di auto-colpevolizzazione, il tentativo di risoluzione nella terapia analitica, e l’estrema difficoltà di ottenere quei risultati apparentemente minimali di autostima, costruzione di una identità familiare propria, legittimazione dei propri desideri, allontanamento dei sensi di colpa, che – in un mondo diverso – sarebbe sfociata in un generale conflitto sociale, o per lo meno nella creazione di una classe. Raimo è radicale: “la schizofrenia è esattamente, precisamente, il modello dei rapporti di lavoro che ci interessano. La schizofrenia è il sostituto psicotico del conflitto di classe”.
Torniamo inesorabilmente al concetto espresso da Franco Berardi: la precarietà è una malattia, una psicosi, una forma di schizofrenia, dove la distinzione tra tempo di lavoro e tempo della vita viene abolita, e dove l’estrema difficoltà esistente nel ricongiungere i propri frammenti provoca una dispersione psicotica dell’Io, con conseguenze anche drammatiche (pensiamo, ad esempio, alle catene di suicidi della Renault).
Ma anche Raimo, infine, pone gli stessi quid di Vasta. Perché il disagio interiore rimane dispositivo clinico, cronicizzazione del malessere senza esplodere nel conflitto sociale? Perché non si forma una coscienza di classe? Perché ciò che è sempre stato un diritto oggi è al massimo una supplica?
Raimo collega quella che lui chiama una “diffusa anestesia” alla forma carnevalesca, trasgressiva e distruttiva assunta dal potere berlusconiano. Certo, la simbologia forte che caratterizza questo regime, basata sui dati propri del corpo, la virilità, lo sfruttamento e l’indifferenza, ha una sua valenza precisa, e certamente se il referente storico di Berlusconi è Mussolini, il suo vero critico è il marchese de Sade, maestro unico nel mostrare l’estraneazione capitalistica del potere, dove il corpo diventa puro fantoccio, buono solo a morire, dopo le sevizie e le violenze.

Eppure – forse Vasta potrebbe concordare – l’anarchica rivolta verso il corpo del re non è impensabile. Salò è finita come è finita, il marchese è morto in galera e Mussolini è finito a testa in giù.
“In un tempo in cui le ascisse si mescolano con le ordinate, i conti non tornano mai e siamo tutti immersi in un vortice che scompagina presupposti e aspettative” – chiosa Vasta – i naturali desideri e le innate ambizioni ad una vita degna, civile e serena, se non diventano un orizzonte lontano e indistinto, possono essere nuovamente ereditati, nella speranza – conclude Raimo – che “non vengano vinto-appagati nell’immediato, introiettati, medicalizzati, in pratica rimossi”, ma che si rivelino “potenti, arrivando a creare qualcos’altro”.

Pubblicato su Precarie Menti

Il numero ancora in edicola di Alfabeta 2, oltre all’articolo di Carlo Formenti già preso in esame su questo blog, contiene una lunga serie di interventi dedicati al tema dei Knowledge workers, in una sezione intitolata – significativamente – Operai della conoscenza.
Qui ci si interroga sul senso di un rapporto che tecnicamente è definibile ancora di lavoro ma che, in realtà, perde molto del senso che  fino a pochi anni fa gli veniva attribuito, nel momento in cui la componente salariale non rispetta i requisiti quantitativi  minimi per definirsi tale, oppure viene addirittura a mancare. Con la scomparsa del salario, elemento determinante del lavoro in quanto relazione tra parti, produzione e fondamento della struttura sociale stessa, il lavoro non è più definibile tale.
Questo è un tema che tocca elevate percentuali di soggetti nel mondo del lavoro intellettuale. Si tratta di un fenomeno in atto su scala globale. La tendenza è legata anche, ma non solo, all’introduzione delle tecnologie subentranti. Se da un lato in tutti i campi che erogano servizi sono stati introdotti degli elementi di gratuità, d’altro canto molte componenti di ambiti lavorativi complessi (la finanza, il turismo, la sanità) sono stati parcellizzati, permettendo di aumentare le componenti di salario variabile (ovviamente tendenti al ribasso), a discapito delle quote di salario fisso.
In nessun campo come nel mondo della cultura questo fenomeno è stato esasperato. Sergio Bologna si chiede “come concretamente si può fermare la discesa del valore del lavoro intellettuale”. Perché di questo si tratta: determinazione del valore di una prestazione lavorativa. Dobbiamo quindi dedurre che oggi produrre cultura non vale più nulla? Eppure, come dice Cristina Morini: “con la sua progressiva trasformazione in merce, la cultura è diventata il motore dello sviluppo dell’economia contemporanea, prendendo il posto occupato dall’automobile […]”. Quindi tutt’altro che perdita di valore, anzi, è proprio il “valore aggiunto delle idee” che pervade il meccanismo. La fabbrica cognitiva, attraverso il taylorismo digitale, avrebbe dovuto portare la cultura al cuore della produzione nel mondo contemporaneo.
Ma qualcosa non ha funzionato: la precarizzazione spinta, le forme di cottimo, le turnistiche, la scomparsa del tempo di lavoro, ritmo circadiano che scandiva la vita dell’operaio, “ha fatto scattare forme di autodisciplinamento” (Morini), portando a ciò che possiamo definire l’introiezione del dispositivo. Non vi è nessun bisogno che qualcuno eserciti una coercizione diretta, ma è la volontà del Knowledge worker stesso a indirizzarlo verso un lavoro che per lui ha mantenuto un alto valore, di partecipazione, di passione, di gratificazione,  mentre sul mercato lo ha completamente perso diventando tendenzialmente gratuito.
Eppure manca qualcosa: questo scenario è ancora completamente interno al fordismo, alla concezione classica della fabbrica. È Francesco Raparelli che sposta l’angolo dell’indagine quanto basta a rivedere l’intero processo sotto una concezione differente. Difatti, aiutato da Deleuze, cerca di definire il passaggio dalla fabbrica all’impresa. L’impresa si definisce proprio all’interno del salto quantico, del cambio di paradigma, che ci porterebbe dal fordismo al cognitariato. In ogni aspetto della produzione si riconosce una macchina linguistica, e in particolare la macchina linguistica contemporanea è digitale, e si incarna nella net economy e nella informatizzazione. Ma questa prospettiva delinea orizzonti completamente nuovi: intanto la trasformazione delle macchine in periferiche, in protesi. Il lavoratore della conoscenza integrato nelle nuove tecnologie è un cyborg, immediatamente in rete. Connesso al mondo, in una forma che non è certo quella olistica e di Gaia, bensì quella dello strumento produttivo, il cervello diviene – continua Raparelli – capitale fisso, mezzo di produzione, che si attua nella forma affettiva e/o linguistica. Conseguenza diretta di questa condizioni è, oltre alla fine del tempo di lavoro che coincide con la vita stessa, la totale precarizzazione della vita, che a questo punto diventa non solo economicamente ma ontologicamente frammentata ed inesistente. Si lavora senza interruzione, gratuitamente, anche perché nulla può ripagare il danno totale che si sta realizzando: la vendita della vita stessa.
“Quando è la soggettività per intero (linguaggio, affetti, relazioni) che viene valorizzata dall’impresa, l’impresa diviene un gas [Deleuze ndr] e la vita di ciascuno viene mobilitata nell’esperienza di lavoro. Il web e il telefonino […] sono esemplificazioni della costante cattura del tempo di lavoro” (Raparelli).
Si introduce qui un termine che ben sottende ciò a cui ci troviamo di fronte: ed è infosfera. Franco Berardi (Bifo) la descrive come uno “spazio saturo di infostimoli [che] eccita costantemente l’organismo cosciente e sensibile, mobilitando l’attenzione, suscitando la reattività automatica, e paralizzando di conseguenza la capacità di immaginazione.”
Il surplus di input, condizione prima della trasformazione del cervello in mezzo di produzione, proviene dalla connessione ad una rete che aliena il lavoratore intellettuale dalla sua originale genialità, impone alla sua anima di produrre, “spossessato della sua stessa essenza” (Bifo), e la costringe ad una stimolazione sterminata.
Questa, secondo Bifo, è l’ultima spiaggia della precarizzazione, la trasformazione definitiva di un processo di trasformazione del lavoro salariato che ha prodotto una forma psicotica di “accelerazione dolorosa del ritmo produttivo” (ib.).
Non siamo protetti in alcun modo, conclude Bifo, come di fronte ad una “apertura all’illimitato”, che non lascia vie di uscita a questa fase storica del rapporto capitale – lavoro.
Certo, come conclude Cristina Morini, “le persone, l’umanità, il valore d’uso, continuano a non essere cose secondarie, nonostante gli sforzi concentrici del capitale”, e le rivoluzioni, i grandi cambiamenti epocali sono sempre fenomeni ambivalenti e molteplici, ma è innegabile, che, oggi, nell’occidente industrializzato, la condizione delle coscienze e delle nostre vite, sia drasticamente limitata nella sua autonomia.

Pubblicato sul blog Precarie Menti

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Su Alfabeta 2, n. 2, il professor Carlo Formenti, pubblica un articolo dal titolo: “Lavorare senza saperlo: il capolavoro del capitale”.

Parte da lontano Formenti in questo articolo. Addirittura dalla nascita di “Quaderni Rossi” (1961). Viene subito da chiedersi come può un’interpretazione – per quanto ardita  – dimostrarsi ancora attuale, tenendo conto della totale e indiscutibile mutazione e innovazione che ha subito il mondo del lavoro da allora ad oggi?
Formenti non ci lascia attendere, e dopo poche righe risponde all’inevitabile quesito, ridefinendo, in contestuale, la sua radicale critica all’operaismo di “Quaderni Rossi”. Dice, infatti: “l’operaismo si è costantemente rifiutato di prendere atto dell’alternanza fra fasi storiche – a fasi di autonomizzazione del lavoro succedono fasi di crisi e ristrutturazione capitalistica, nel corso delle quali nascono nuove modalità di subordinazione del lavoro – ostinandosi a descrivere l’evoluzione della realtà sociale come un movimento «ascensionale», in cui l’iniziativa strategica è costantemente dalla parte del lavoro, mentre il capitale appare costretto a rincorrerne le mosse attraverso risposte tattiche.”
Tradotto significa – nella sostanza – che il capitale non solo non ha bisogno di rincorrere i tentativi di emancipazione della forza lavoro, ma addirittura è in grado di anticiparli e di ristrutturarsi di conseguenza, creando nel tempo modalità assolutamente nuove di subordinazione del lavoro.
In queste poche righe, e con una linearità esemplare, Formenti ha descritto il processo che, all’interno della dialettica capitale – lavoro, ha portato alla nascita ed allo sviluppo dell’odierno precariato.
Formenti riconduce il processo alla nascita delle cosiddette dot-com, ovvero alle origini della net economy. Secondo la sua analisi, negli anni novanta si riproduce lo stesso meccanismo che ha portato alla sconfitta dell’operaismo (e – in senso lato – della lotta operaia) avvenuta alla fine degli anni ’70, con il superamento del concetto di operaio – massa, e l’inizio della diffusione nel mondo del lavoro di un individualismo esasperato che dura ancor oggi.  Eppure, pur riconoscendo quindi un analogo meccanismo di ascesa – crisi – superamento, si evidenzia immediatamente una differenza cruciale tra le due epoche. Questa discrepanza è così importante da generare un nuovo interprete nella dialettica capitale lavoro: ovvero i knowledge workers, che oggi – con i dovuti distinguo – chiamiamo cognitariato, o precariato intellettuale. Costoro – secondo Formenti – avrebbero nella prima fase espansiva della net economy, creato praticamente gratis una rete di conoscenze che è poi diventata la base della net economy stessa fino alla crisi del 2000-2001, che ne ha causato il crollo. Difatti, dice Formenti, i kowledge workers si sono formati “in totale autonomia dal mercato, attraverso forme di cooperazione sociale spontanea e gratuita di cui la comunità degli sviluppatori del software open source costituisce un esempio paradigmatico”.
Ora, questo è un passaggio strutturale del ragionamento di Formenti che merita di essere approfondito, poiché, se è assolutamente vero ciò che lui dice in linea concettuale, questo processo si può applicare solo ad un’élite di poche decine (centinaia) di tecnici di alto livello, che in nessun modo possono essere considerati rappresentativi di chi ha comunque lavorato nel settore informatico cibernetico senza essere un progettista ai massimi livelli. Nei vent’anni seguenti la forza contrattuale di questi lavoratori è stata completamente livellata, anche attraverso i meccanismi dell’indebitamento continuo sulla base di ipotetici guadagni futuri che non sarebbero mai giunti.
Formenti compie un passaggio tutt’altro che scontato nell’analisi economica diffusa, quando individua un legame forte tra la crisi di inizio secolo nella net economy e l’attuale crisi innescata dai subprime. A suo giudizio è stata proprio la necessità di trasformare gli alti redditi – che ormai nessuna ditta poteva più permettersi – in altra forma di reddito, ovvero in finanziamenti a pioggia sul debito privato, che ha provocato, nel medio termine la crisi di un modello di relazioni industriali.
Oggi negli States esistono circa 12 milioni di lavoratori che noi chiameremo “a progetto”, ovvero precari, solo nel settore del Web 2.0, “sottoposti a ritmi di lavoro durissimi (i datori di lavoro utilizzano software di monitoraggio che scattano periodiche «istantanee» del desktop, misurano il tempo di utilizzo di mouse e tastiere e costringono il lavoratore a tenere dei «diari» sul progredire del lavoro), sottopagati (il datore di lavoro può rifiutarsi di pagare se ritiene che gli obiettivi non siano stati raggiunti) e privati di qualsiasi tipo di tutela giuridica e sindacale”.
Ma che cosa comporta questa condizione che fa perno sul web 2.0? In che misura blog, social-network, e le varie piattaforme entrano nella catena di produzione? Si può parlare ancora di lavoro? Tutti noi che spendiamo (dedichiamo) tempo ed energie alla/nella rete, in che misura lavoriamo? E quindi, come si traduce il rapporto capitale lavoro?
Sappiamo bene, per esperienza diretta, quanto il lavoro intellettuale assolutamente gratuito sia diffuso in rete e questo aspetto dell’analisi, che Formenti accenna solo, va ben al di là dei lavoratori effettivamente impiegati nel settore informatico.
Il passaggio è cruciale, poiché si trascende la forma lavoro classica (dove per forma lavoro si intende l’espressione specifica e storicamente determinata assunta dai rapporti di produzione),  per scoprire che – sulla scia di Baudrillard e – in parte – dei Situazionisti – è la vita intera che diventa produzione, che è prodotta (in quanto bene) e produce beni, anche immateriali, come nel caso della conoscenza.
A partire dalla fine della distinzione tra tempo di lavoro e tempo libero, con la scomparsa del secondo, oggi ci accorgiamo che il lavoro in rete, il tentativo di un’autorealizzazione in uno schema radicalmente diverso dal capitalismo anche solo di vent’anni fa, rischia di venire fagocitato da un meccanismo palese: se si è capaci di fermare l’estrazione di valore che il capitalismo cognitivo compie, allora la rete può ancora avere un peso nella ricostruzione di un mondo del lavoro liberato, altrimenti si ricade inevitabilmente nell’apparato coercitivo e microfisico di Foucault.
Fortunatamente la rete oggi è ancora talmente fluida che gli spazi per creare dissenso e contropotere sono ampi, ma “non bisogna lasciarsi incantare dalle tesi di autori come Yochai Benkler, Kevin Kelly, Jeremy Rifkin, Clay Shirky e altri che vanno blaterando di terza via, postcapitalismo, economia del dono, socialismo digitale eccetera”. È vero, come viene sostenuto da questi autori, che oggi (ed in futuro sempre più) è la rete a produrre valore, e che il costo dei mezzi di produzione è nullo, dato che noi lavoriamo gratis, per far crescere e sviluppare la rete stessa, ma questo – vorrei dire purtroppo – non significa certo quel superamento del lavoro in quanto tale esplicitamente previsto ad esempio da Kevin Kelly.
Stiamo assistendo proprio a una fase di riappropriazione, “la fase storica che stiamo vivendo, al pari di tutte le fasi di crisi e ristrutturazione capitalistica, non è affatto caratterizzata da un accresciuta autonomia del lavoro, bensì da una potente controffensiva capitalistica che, per la prima volta, non si limita a ridimensionare i rapporti di forza del lavoro, ma tenta addirittura di farlo sparire, nella misura in cui riesce a far credere che una serie di attività vitali si stiano «liberando» dal mercato proprio quando quest’ultimo si prepara a colonizzarle” – conclude Formenti, con molta franchezza.
La rete in realtà è ancora uno strumento talmente flessibile ed imprevedibile da poter evitare categorie così rigide e precise, come quelle viste finora. Esiste – per citare un altro testo dello stesso Formenti – ancora un “incanto” della rete, dove questa non si produce, ma si inventa, e dove il caso (caos) gioca ancora una sua componente decisiva.
Per quel che riguarda il rapporto capitale – lavoro nel precariato cognitivo, l’analisi di Formenti è molto precisa, e non vede vie di uscita, nemmeno nel mondo Commons.

Pubblicato su Precarie Menti