Inchiostro Rosso è il nome della collana noir edita da Agenzia X, e curata dallo scrittore milanese Matteo di Giulio, che viene inaugurata da “La gabbia dei matti“, il nuovo romanzo di Luca Rinarelli, scrittore torinese che ha esordito solo due anni fa con l’ottimo “In perfetto orario” (Robin). Considerato il successo del personaggio di Werner, figura accattivante e nel contempo dotata di profondità e sensibilità, ci si poteva aspettare un sequel, che certamente sarebbe stato ben accolto dai lettori.
È quindi una piacevole e inattesa sorpresa leggere una storia che affronta temi nettamente diversi dalla precedente, mantenendo una prosa elegante e solida. Rinarelli si conferma abile narratore e attento osservatore della realtà che lo circonda – non a caso associa alla scrittura l’attività di fotografo. Il suo sguardo risente di questa sua deformazione professionale, dell’abitudine a “mettere a fuoco”: una caratteristica costante della sua narrazione è infatti il continuo reinquadrare i personaggi – che sfuggono a griglie predeterminate proprio perché obbediscono a un criterio di verità. Quasi un reportage, La gabbia dei matti richiama l’attività professionale di Rinarelli, che si occupa, presso un’associazione, di persone senzatetto e in difficoltà, come la maggior parte dei personaggi di quest’opera.
Verrebbe immediato inserire questo racconto nel filone del noir sociale, e Rinarelli certamente si inquadra in questo modulo narrativo. La gabbia dei matti, difatti, è un testo duro, crudo e di frontiera. Èun’opera di parte, e in modo netto, senza distinzioni e orpelli retorici. Eppure, nonostante ciò, è un’opera carica di dubbi e perplessità, in quanto la distanza sempre più ampia tra teoria e prassi costituisce la cifra del racconto: anche se gli ideali sono saldi, oggi le pratiche sono molto meno facilmente delineabili. La questione posta dai personaggi non ammette dilazioni, o strategie. Come si ottiene giustizia? Qual è nel nostro tempo martoriato la via per vivere degnamente? I piccoli uomini di Luca Rinarelli, allontanati da una società che non ha occasione di sfruttarli, e divenuti perciò inutili, scelgono la via della rivolta. Non vi è alcuna commiserazione, né traccia di quel pietismo o sentimentalismo romantico di sinistra, troppo spesso presente in ogni percorso che si interroghi sulle forme di lotta.
Marco, Daniela, Pietro, Jack, Borghi e tutti gli altri, ognuno a suo modo, si elevano in un istante di dignità che li trasfigura. Non sono più i falliti relitti di una Torino appena intravista sullo sfondo di fabbriche abbandonate e lavori in corso. In un mondo dove la clinica e la prigione sono l’anticamera del cimitero, provano – per pochi giorni – a vivere degnamente.
Le caratteristiche narrative avvicinabili al neorealismo che erano proprie del precedente romanzo, e che nelle prime pagine potrebbero apparire come modulo stilistico prevalente anche del secondo romanzo, prendono la forma di una specie di realismo magico, in cui simboli e segni si intersecano alla realtà. La sindrome bipolare, la depressione, la schizofrenia, e il catalogo di disfunzioni mentali di cui soffrono i personaggi, diventano, come in Burroghs e Dick, altrettante strategie per ricostruire la realtà, per provare a modificarla. Pratiche di sopravvivenza che si incontrano con la apparente realtà in modo dirompente, e non omologabile ad altre forme di rivendicazione.
Vi sono delle questioni aperte che emergono con forza in questo romanzo, e che di certo costituiscono il suo merito principale, come quella – irrisolvibile – del ruolo della violenza nel processo rivoluzionario. Il tema della memoria è altrettanto sentito: per costruire una società più giusta, ma anche solo per opporre il ricordo alla omologazione della cronaca, si esplicita in modo netto la necessità di mantenere vivi nella memoria individuale e collettiva tutti coloro che sono morti a causa di un potere esercitato con la forza di un abuso.
Nel romanzo gioca un ruolo importante la Rete, di cui Rinarelli induce nei suoi personaggi un utilizzo estremamente sofisticato, rendendo attuale così ancor di più la narrazione, ed evidenziandone possibilità e limiti. I media, e in particolare i giornali, sono protagonisti, e anche in questo frangente emerge il conflitto e il dibattito interno ai media stessi, circa ruolo e funzione dell’informazione. Tutti questi temi rivestono un’importanza centrale, e ogni lettore non potrà evitare di sentirsi chiamato a partecipare; tuttavia, credo che il vero fulcro di questo breve ma intenso romanzo consista nel ribaltamento di prospettiva che si realizza nella vita dei protagonisti.
“Un altro mondo è possibile” non è più lo slogan di un movimento, ma una prassi da attuare, un modulo di lavoro, uno schema interpretativo attraverso cui rileggere la quotidianità. Ognuno dei personaggi è quindi in grado di ricongiungere ideali, progetti e vita. Lo spirito e la carne ragionano insieme, perché la distanza tra teoria e prassi si annulla nella Rivoluzione. Le disabilità dei protagonisti diventano le loro virtù, le loro debolezze la loro forza. Loro hanno ragione, e non perché lo dice la Storia o chi altro, ma perché il diritto è vissuto nella sua assenza, che purtroppo è spesso quotidianità, per chi in questa società non ha diritti, o li vede calpestati ogni giorno, perché è nella quotidianità che si incarna la giustizia, e loro lo (di)mostrano, vivendo da giusti, grazie a quelle qualità che altri chiamerebbero handicap.
Originariamente pubblicata su Il recensore
Simone Sarasso: dalla memoria alla profezia
26/08/2009
Simone è novarese, ovvero abitiamo nella stessa città. E’ capitato che andassimo a mangiare (e bere) qualcosa insieme a due care amiche. Francesca, che è già apparsa su questo blog, e Paola. Ovviamente la serata è degenerata, e certo non per colpa delle signore. Il risultato di quella serata, e anche di tante altre chiacchierate tra me e Simone, è riassunto in questo articolo, microsaggio, chiamatelo un pò come volete … che, grazie all’amico Stefano Giovinazzo, è stato anche pubblicato su Il Recensore.
Simone Sarasso è poco più che trentenne. Quando ho iniziato ad avvicinarmi a lui ed ai suoi scritti non immaginavo nemmeno l’opera di ricerca e scavo che, in completa incoscienza, si è intestardito a portare a termine per il suo romanzo: una storia d’Italia per enigmi e misteri, a partire dal secondo dopoguerra. Opera che nemmeno un Montanelli o un Biagi si sono azzardati ad intraprendere, consci degli enormi rischi, personali e politici che avrebbero corso. “La trilogia dell’Italia sporca“, così si intitola, e ad oggi ne sono stati pubblicati solo i primi due volumi. Dov’è il trucco? Cos’è che permette oggi a Sarasso di riuscire dove altri ben più titolati di lui non si sono nemmeno azzardati? Innanzitutto – e non bisogna scordarlo – i tempi sono cambiati. Non molti anni or sono, chiunque avesse avanzato certe ipotesi o fatto certe domande, probabilmente avrebbe ricevuto dei regali sgradevoli, spesso definitivi. Oggi – sembrerebbe – non è più così, o per lo meno non lo è finché si parla degli anni fino alla morte di Moro, ovvero del secolo scorso. Il terzo volume della “Trilogia dell’Italia Sporca” è ancora da pubblicare, e solo allora si vedrà quanto il distinguibile lavoro di Sarasso potrà toccare anche gli attuali poteri forti.
Poi, se si vuole, il meccanismo letterario attuato dall’autore è abbastanza semplice, soprattutto alla luce del nuovo modello letterario, il New Italian Epic, che Wu Ming ha imposto alla critica ed alla letteratura del nuovo millennio. Sarasso sta scrivendo un romanzo, e per quanto i principi di verosimiglianza e verificabilità debbano essere rispettati , siamo sempre in un romanzo, non in un articolo di quotidiano (proprio perché la gestione della verità, la differenza tra vero e falso è completamente alterata dalla differenza mediatica). Questo è il paravento di Sarasso, il suo scudo, il meccanismo salvifico che gli permette di chiamarsi fuori nei momento ostici, dove diventa indispensabile la prova provata. Scrivere un romanzo permette di bypassare questi momenti appellandosi a qualche emendamento (forse di Pennac?) che stabilisce la libertà dello scrittore, ma come è facile intuire di questo meccanismo non si può certo fare un uso eccessivo, pena la dipendenza e quindi la perdita di credibilità. Ed è proprio qui che scopriamo la grande perizia di Sarasso: pur dicendoti continuamente che stai leggendo un romanzo, che assomiglia solo alla verità, ma che non è – in senso giuridico – dimostrabile, Sarasso ti convince che ciò che probabilmente è proprio la verità, anche se non potrà mai provartelo. Crudelmente, verrebbe da dire, “in perfetto stile democristiano“.
Questo risultato lo si ottiene solo grazie al colossale lavoro di ricerca sui documenti che Sarasso ha compiuto, grazie agli anni spesi a verificare ipotesi ed a trovare tesi verosimili per problemi finora senza soluzione, ed allo sfruttamento, riconosciuto e ricordato, dei lavori affini di Lucarelli e Genna. La sua narrazione prosegue alternando personaggi diversi, alcuni dei quali sorprendentemente a volte muoiono – impedendo con ciò qualsiasi processo di identificazione tra lettore e personaggio – intercalata con poderosa documentazione d’archivio, che dovrebbe annoiare mortalmente qualsiasi lettore e che invece, nel contesto è assolutamente convincente e coinvolgente.
“Turkemar“, il primo romanzo scritto da Sarasso, lo scopriamo in realtà una specie di prequel a “Confine di Stato“, il primo atto della trilogia. Il romanzo racconta della vita di Fred Buscaglione, mito dell’Italia degli anni cinquanta, e nella prima parte della trilogia, Sarasso utilizza le conoscenze che aveva acquisito mentre si occupava della figura del grande musicista. In quegli anni Sarasso lavorava per Fernado Quatraro, che venuto a conoscenza delle capacità del suo dipendente, lo appoggiò decisamente nel proseguo della sua carriera. Sarasso pubblicò quindi per l’editore Effequ prima “Turkemar”, e a seguire una prima edizione di “Confine di Stato”. Notato da Jacopo de Michelis, di Marsilio, da Giuseppe Genna e da Wu Ming, firmò il contratto con
weight:bold;”>Marsilio per l’intera trilogia.
Quest’anno è stato pubblicato anche “Settanta“, secondo atto dell’opera, dove è l’Italia degli anni di piombo che viene passata sotto il riflettore dell’investigatore Sarasso. Non mi soffermo nei dettagli dei singoli romanzi, nell’analisi dei punti nodali della nostra (quasi) democrazia come viene delineata da Sarasso, dal caso di Wilma Montesi a Enrico mattei, soprattutto perché in questo m
omento non ci interessa tanto la veridicità del suo lavoro che pure è importante (sul tema sono già stati scritti moltissimi testi, perché questo dovrebbe essere migliore di altri?), quanto il suo rapporto con il lettore e la letteratura.
Cosa significa oggi rifare questo lavoro? E perché è così importante? Il terzo volume sappiamo che non è ancora stato scritto, forse perché in fondo è il più difficile dei tre, il più vicino alla nostra realtà e quello dove più facilmente si potrebbero toccare cadaveri ancora caldi, e forse sarà quello che, più dei primi due, ci darà risposte a queste domande. Ma Sarasso non si ferma, supera l’impasse dovuto al terzo volume, ovvero al presente, e si rivolge direttamente al futuro: “United we stand“. In Autunno uscirà una graphic novel con questo titolo dove viene inserito parte del materiale raccolto nell’omonimo sito e che si presta a moltissimi percorsi laterali.
Il mondo in cui ci troviamo è decaduto, a seguito della guerra nucleare sino-americana. In Italia è scoppiata la guerra civile, in conseguenza di un tentato golpe fascista e della ricostituita resistenza armata. E’ chiaro che il tutto avviene nel nostro mondo, con i valori e le possibilità del nostro mondo, e tutto ciò nel bene e nel male. Per cui non si tratta della Resistenza che noi conosciamo, ma di una sua versione cyberpunk, potremmo dire, così come il mondo che ne sorge è una specie di mondo parallelo con infinite possibilità di sviluppo.
Un exempla di questo mondo parallelo lo troviamo nel racconto scritto per l’antologia edita da Agenzia X, “Voi non ci sarete“. Il mondo di Sarasso è un Italia maledetta, dove da sempre lo scontro tra le bande armate infiltrate dai diversi blocchi ha provocato stragi e dolore. Il mondo futuro non è da meno, anzi.
Noi non siamo qui per condividere o meno il valore politico dello scrittore Sarasso, che d’altronde lui stesso rifiuta, da cui prende le distanza, ma dobbiamo sciogliere i nodi – almeno quelli possibili, di un’opera incompiuta. Così l’operazione iniziale di Sarasso è basata sulla memoria, e sul suo recupero attraverso la narrazione, riattualizzando così il passato a beneficio di tutti coloro che non lo hanno vissuto. Analogamente vedremo, attraverso l’esplosione mediatica, probabilmente ballardiana, lo sterminio della cronaca e del giornalismo, il loro diventare simulacro, icona della falsità e dell’ipocrisia, che è ciò che avviene nell’oggi, dove nulla ha più determinazione di realtà, quando passa attraverso il media televisivo, anche il dramma più profondo: Giuseppe Genna su questo tema ha scritto pagine memorabili nel suo “Italia de Profundis“. Si giunge così al futuribile, alla profezia, schema narrativo del possibile, dove le mille eventuali interpretazioni dello sciamano Sarasso aprono infiniti futuri ad un ‘Italia sempre più lontana dal reale, e sempre più integrata in un reality. “United we stand” è proprio questa profezia: il drammatico futuro di un Italia che non è stata capace di liberarsi dai gioghi dell’ideologia, e lo sciamano Sarasso ci conduce a vedere il muro che, dopo Roma, divide l’Italia in due.