Al di là di quello che potrebbe sembrare ad una prima lettura, l’ultimo libro di Cristina Zagaria, “Perché no” (Perdisa edizioni, 2009), ha come oggetto non tanto Napoli o la malavita, che pure ne sono l’ambientazione e lo sfondo, bensì l’adolescenza, quell’aria particolare che si respira quando hai appena finito di imparare a camminare ed ancora non hai raddrizzato la spina dorsale, per camminare eretto nell’età adulta.
E’ un’aria frizzante, che inebria, e che può facilmente confondere le prospettive, per cui non è più chiaro ed evidente cosa c’è in primo piano e cosa sullo sfondo: il fuoco dello sguardo si sposta, molto – troppo – velocemente.

Francesco e Daniele sono due ragazzini, appena adolescenti, farebbero le medie se fossero assidui studenti, e sono i protagonisti di questa storia. Intorno a loro il mondo della Napoli cosiddetta popolare, dei mercati, dell’ufficio postale, della disoccupazione, della malavita e della polizia.
Ma tutto ciò è la scenografia, i costumi, la fotografia. La sceneggiatura di questo cortometraggio – la scrittura è molto filmica, sarebbe facile una trasposizione – è centrata sui due giovani, e sul loro approccio ai primi ‘giochi proibiti’, che però sono di tipo decisamente più pericoloso del sesso.
Cocaina, pistole e rapine si intrecciano nelle relazioni con i malavitosi più o meno cresciuti, che controllano l’isolato, il marciapiede, la strada, il rione. Pennellate di vita spicciola si innestano sul terrore quotidiano, nel sentore di vivere costantemente sull’orlo della catastrofe, e questo, per la delicatezza di un animo che si sta affacciando alla vita pubblica, è totalmente distruttivo.

E proprio la distruzione – la violenza pura – diventa quindi il leit motiv, del racconto: tutto degrada, tutto degenera, in una spirale che giorno dopo giorno, ora dopo ora, trascina inesorabilmente due giovani anime verso lo scuro. L’assenza di una struttura familiare consolidata, nonostante l’impegno che spesso i singoli non risparmiano, si rivela il vero cuneo che spacca il fragile corpus di valori di un adolescente sottoposto alle pressioni di un ambiente ostile e violento.

Se alle spalle di un dodicenne emotivamente frastornato dalla sequenza di lampi e di luci del luna park mediatico in cui si vive tutti, esposto come una falena che brucia su un lampione, vittima della macchina desiderante che ci obbliga a cambiare cellulare ogni mese, se alle sue spalle dunque trovassimo il solido muro di una famiglia non smantellata dalla carenza di lavoro e di strutture sociali, la resistenza di una scuola dove gli insegnanti vengono riconosciuti per il baluardo che sono, non posso certo dire che il serbatoio di manovalanza a buon mercato della criminalità organizzata sarebbe smantellato, ma certamente la sopportazione di una vita che si prospetta di duro lavoro e di scarse gratificazioni sarebbe più facilmente possibile.

Cristina Zagaria ci racconta questa disillusione, e la rende ancor più terribile incarnandola in coloro che dovrebbero darci speranze nel futuro. Bambini soldato, come in Africa o in Asia, Francesco e Daniele mettono a nudo la coscienza di una nazione che – purtroppo non da oggi – è incapace di proteggere i propri figli.
E’ questo è il peggio che si può scoprire di se stessi.

pubblicata su Il recensore.

Dopo il successo ottenuto lo scorso anno con “La città Perfetta”(Garzanti), l’editore prettamente ‘nero’ Meridiano Zero, ha voluto riunire in un volume unico intitolato “Napoli nera“, due racconti lunghi di Angelo Petrella, entrambi cronologicamente precedenti a “La città Perfetta”. “Cane rabbioso” difatti è del 2006, e “Nazi Paradise” dell’anno seguente. L’operazione è encomiabile, intanto per il valore intrinseco dei due testi, e secondariamente in una prospettiva genealogica circa la genesi dell’opera che è seguita.

Tecnicamente i due racconti sono pulp puro. La lezione del più feroce romanzo americano è stata compresa perfettamente ed ambedue i racconti (soprattutto il primo) sono quello che di solito viene definito un pugno allo stomaco. Ma non è tanto nella ferocia e nella violenza che vi si trova la peculiarità che rende così innovativi e geniali questi racconti, bensì nel linguaggio. Petrella prende la frase, la disossa e ne sparge i brandelli sulla pagina. Applica alla perfezione alla lingua le stesse abiette violenze che i suoi personaggi usano e subiscono. La lezione della sceneggiatura è applicata perfettamente: al punto che in certi momenti Petrella descrive le scene fotogramma per fotogramma.

E’ scontato che l’etica e la morale abitano lontano da qui. Nessuno si salva, ma nemmeno di sfuggita, ma questo lo si capisce dopo dieci righe. L’unico obiettivo è la sopravvivenza, almeno per i dieci minuti che seguono. “The Bad Lieutenant” di Abel Ferrara è un’operazione per bambini – in confronto. Brevemente le trame.

Cane Rabbioso” racconta di questo poliziotto, all’apparenza con un cartellino di tutto rispetto, scrittore, poeta, noto per la sua attività: un poliziotto di successo. Nella realtà è invece membro di una specie di ‘cupola’ composta da vari membri delle forze dell’ordine e costituita per la spartizione dei vari mercati illegali nella città. Il personaggio diventa addirittura paradossale, tanto è sproporzionato nel suo eccedere. Chiunque se utilizzasse il quantitativo di droghe e psicofarmaci che viene utilizzato dal poliziotto nell’arco di ventiquattro ore sarebbe solamente disteso sul tavolo di un obitorio. Ma non è questo il punto: il perno è nella ferocia assoluta con cui tratta il resto del mondo. In lui non è rimasta la benché minima traccia di umanità, nel senso morale del termine. Persino la sua stessa morte è vista solo e unicamente come un evento noioso e senza alcun senso: così come il resto del mondo. Senza senso.

Nazi Paradise” è stentatamente meno caustico. Il giovane naziskin protagonista del racconto permette anche un minimo di identificazione, nonostante la sua assoluta estraneità da ogni comportamento civile. Anche per lui l’unico valore è la sopravvivenza, ma lui non è un dominatore come il poliziotto di “Cane rabbioso”, bensì un perdente, uno zombie, tanto è precaria la sua stessa esistenza. Tutto ciò che lo salva è l’adesione ad alcuni principi (valori) di stampo nettamente neo tribale che condivide con i ‘camerati’: la curva allo stadio, l’odio per gli extra comunitari e per tutto ciò che è etichettato di ‘sinistra’, l’avversione ai poliziotti, ed alle forze dell’ordine in genere, come a tutto ciò che è ‘istituzionale’. L’anarchia si ritrova sotto l’etichetta evolutiva di una società hobbesiana.

L’aspetto più interessante di questo secondo racconto è invece l’introduzione, soprattutto nel linguaggio, dell’esperienza informatica e tecnologica. Il protagonista è un hacker e vive (anche) nel mondo delle chat e dell’hackeraggio: furti nelle banche, incursioni nei siti altrui, etc. Petrella riporta minuziosamente il linguaggio delle chat, anche ricorrendo ad invenzioni grafiche e linguistiche (per il tema mi permetto di rimandare a Di Gregorio: “L’analisi della conversazione in chat” Il Ciliegio Edizioni – pg. 83 e sgg.), costruendo ancora una volta uno schema quasi cinematografico, anche se su un canale diverso.

Questo articolo, leggermente modificato, è stato pubblicato su “Il recensore”