E’ veramente complesso scrivere di un’opera come “Lo stagno delle Gambusie” (Meridiano Zero, 2009) dell’esordiente padovano Enrico Unterholzner. La difficoltà non sta tanto nella laboriosità della trama, nell’essere arduo dell’argomento, nel linguaggio ardito, bensì nella sua anomalia, nel suo essere essenzialmente e radicalmente altro. Il libro si distingue infatti in modo totale da ciò che siamo abituati a leggere, dalla quotidiana letteratura italiana.

Personalmente vedo i suoi precursori ideali in alcune forme narrative, ma ancora di più in alcuni singoli racconti. Penso a “La Ronde” di Arthur Schnitzler, da cui il meraviglioso film di Max Ophuls, penso a certo Canetti minore, nei passaggi dei suoi infiniti appunti sul mondo, a Stefan Zweig, forse a Thomas Bernhard. “Lo stagno delle Gambusie” però si rifà ad una tradizione in realtà molto più antica, quella della parabola.

Le parabole non sono mai state delle narrazioni simboliche, nel senso metaforico, bensì delle allegorie. Difatti attraverso la sequenza di eventi che occorrono ad uno o più individui si estrapola una norma od una regola generale, solitamente un principio etico. E’ fondamentale distinguere il procedimento dalla metafora perché la metafora prevede una similitudine tra le parti in causa, mentre l’allegoria non lo richiede. E’ l’autore del testo, della parabola, che assimila le parti, ma in modo arbitrario, creativo. Così accade a Geremia, il personaggio del romanzo. Quella di Geremia è un’allegoria demiurgica, e difatti lui costruisce una rete di elementi che definiscono un mondo, un insieme di relazioni, di cui lui è il deus ex machina, il motore immobile. Difatti lui stesso dice che “gli dei non creano il mondo, lo immaginano“. Geremia, dio minuscolo, costruisce il suo mondo immaginario, ovviamente a sua immagine e somiglianza. La storia di Geremia difatti è una parabola perché ha una morale, che viene identificata nella sua hybris tragica, che lo porta ad un destino ineluttabile.

Un ulteriore elemento che identifica la vita di Geremia è l’estrema ritualità. Come in ogni religione anche nella vita di Geremia esiste una serie di comportamenti prestabiliti da cui non si può sfuggire, alcuni anche estremamente pericolosi, ovviamente secondo la sua visione. Tra questi si può ritrovare il passeggiare lungo certi viali particolari, incontrare una mamma, oppure la collega di ufficio. Eventi che possono cambiare in modo radicale la percezione del mondo di Geremia. Questo ad esempio succede in modo decisivo a causa di un elemento apparentemente insignificante: un pelo di gatto, che nella cosmologia allegorica di Geremia assume su di se una serie di collegamenti che lo porteranno fino alla drammatica conclusione.

Lo stagno delle Gambusie” quindi è un libro che è fondamentale leggere – anche perché immagino abbiate percepito la difficoltà del critico nel presentarlo. Sicuramente può essere interpretato in molteplici modi, ed io ho accennato solo ad uno di questi. Penso però che se ognuno di noi fa suo il tentativo di aprirsi alla sensibilità particolare di Geremia, dovrebbe riuscire a coglierne la dolcezza, e la grande solitudine della sua vita.

Pubblicata su Il recensore

Laura Liberale è alla sua prima opera come narratrice di prosa. Il titolo è “Tanatoparty” (Meridiano Zero, 2009), ed è un modo linguisticamente moderno per riferirsi alla Toden Tanz, la Danse Macabre che spesso ritroviamo negli affreschi delle chiese medioevali. Ne ricordo una particolarmente spettacolare nell’Oratorio dei Disciplini, a Clusone , un borgo della bergamasca, dove ad una Danza Macabra si contrappone un Trionfo della Morte. Forse però – più prosaicamente – molti lettori ricorderanno il rifacimento di una danza medioevale compiuto da un italico menestrello.

Ma tant’è, per tornare al romanzo ed a Laura Liberale, ciò che accade – a voler ben vedere – è affine all’antico esorcismo medioevale del ‘ballo con la morte’, della partita con la morte così ben immaginata da Bergman, ma traslitterato nelle attuali opere di trasformazione dell’evento morte.
Di fronte allo sviluppo dell’industria mortuaria e del marketing sul post-mortem, non possiamo forse ancora parlare di reificazione del cadavere, ma certamente si può parlare di mercificazione, che è comunque una forma di alienazione della morte dal vissuto. Ogni forma di approccio al cadavere che non lo colga in quanto tale, altro non è che un modo per allontanare da noi questo calice, per trasformare il corpo amato in un oggetto come tanti, anzi, nell’oggetto per definizione.

La prima osservazione, espressamente grafica e visiva, che si compie aprendo il libro, riguarda delle frasi che – letteralmente – incorniciano ogni pagina del volume. Questa cornice definisce un limite (ancora una volta), un margine apparentemente insuperabile, una linea che contiene il testo. Queste frasi sono tutti estratti dal Bardo Todol, il Libro Tibetano dei Morti. Perché Laura Liberale fa questo? Cosa significa incorniciare (delimitare) il testo, ovvero la parola, con una serie di mantra estratti da un testo ancora per molti versi misterioso, ma che certamente ha la sua ragion d’essere nella mortalità stessa degli uomini? Io amo interpretare questa operazione come il disegno di una sorta di pentacolo, che dovrebbe delimitare un’area sacra, protetta, dove si deve svolgere un rito. E rito è proprio la narrazione, in specifico la narrazione della morte, il testo che evoca i morti.

Nella tradizione tibetano – nepalese è consuetudine anteporre all’ingresso delle case, o dei tempi, maschere di mostri orrendi, al fine di terrorizzare gli eventuali demoni che cercassero di invadere l’edificio. In fondo la stessa funzione di un amuleto portato al collo. Si tratta quindi di delimitare uno spazio che isoli il demone dal mondo, oppure di isolare uno spazio di sicurezza: la casa, il corpo, dove si abita. La stessa funzione, nella cultura tradizionale dei nativi americani di stampo sciamanico, è incarnata in quegli oggetti noti come dream catcher. Questi devono catturare i sogni ‘positivi’ ed allontanare gli incubi. Infatti l’amuleto viene posizionato sulla culla dei bambini o all’ingresso delle stanze. Si tratta sempre quindi di circoscrivere degli spazi di sicurezza per il bambino, o per la comunità. Infine ricordiamo quello che è l’icona per eccellenza nella storia della magia in occidente, il già citato pentacolo, spesso circoscritto da un cerchio, che ancora una volta delimita uno spazio di sicurezza, in cui il negromante può operare incolume alle forze da lui stesso generate.

L’operazione con i mantra del testo tibetano è analoga: bisogna costruire un reticolo magico che delimiti il racconto, ed impedisca ai morti di invadere il nostro mondo. Questo perché tutto il testo di Laura Liberale altro non è che un opera di negromanzia, al fine di ritrovare quel senso della morte e di ciò che le segue oggi perduto. Da un punto di vista alchemico siamo certamente nella nigredo, la putrefazione e la decomposizione sono gli elementi cruciali del sulfureo sortilegio. Albedo e Rubedo verranno, forse in prossimi libri, ma già certamente annunciano qui la loro epifania.
La delimitazione del testo tramite recitazione di formule magiche serve quindi ad impedire ai morti di sorgere dalla materia inerte, per riprendersi un ruolo perduto.
In cosa consiste questa loro tensione? morti vogliono essere vissuti per quello che sono: ovvero come passato, memoria, dolore. La grande stregoneria del nostro tempo, il capitale, ovvero l’esorcismo più potente che si sia mai osato pronunciare, li ha inesorabilmente allontanati da ciò, per renderli pura merce, oggetti dello scambio materiale, vilmente ridotti a transazioni finanziarie, dalle pratiche di successione ai futures sui loculi.
I corpi dei morti sono sempre meno morti, ma non potranno comunque mai più appartenere a vivi, e così rimangono limbici, colpiti da dolorose, strazianti torture, frutti di esperimenti impossibili di tanatometamorfosi.

Tanatoparty” concentra perciò il suo sguardo sulle pratiche cosidette ‘post – mortem’, ovvero su quell’arte chiamata Tanatoprassi. A partire dalla pratica egiziana della mummificazione fino agli odierni deliri hollywoodiani, quali l’invio delle ceneri sulla luna, la compressione delle stesse fino ad ottenere zirconi artificiali, la cementificazione per partecipare alla ricostruzione delle barriere coralline, il corpo è stato espropriato della sua mortalità, e negromanticamente obbligato a ripresentarsi come se fosse vivo. Zombie dotati di maquillage e silicone, attraverso tutte le tecniche della ricostruzione, questi sono i morti che Laura Liberale ci descrive nei dettagli e con profonda conoscenza delle tecniche sopraddette, soprattutto nel caso del post traumatico.


Truccati e ricomposti, scuoiati ed esposti al pubblico adorante dei parenti addolorati, i corpi dei defunti sono avvicinabili ai corpi trattati con la tecnica detta ‘plastinazione’, ideata da Ghunter von Hagens, dove sono sottoposti alle più sofisticate tecniche di conservazione.

Poveri morti che non hanno il diritto di restare tali, poiché noi non siamo in grado di comprendere il loro (non) essere. Marina Abramovic, Stelarc ed i molti artisti corporei presenti sulla scena oggi, ci mostrano da tempo la sofferenza di questo corpo, privato del suo stesso destino, della sua morte.

Laura Liberale, negromante e fattucchiera, ha una scrittura estremamente evocativa, contenuta – come si è detto – dalla magia del mantra tibetano, che oggettivizza la necessaria distanza. I morti hanno un loro mondo,in cui hanno il diritto ed il dovere di permanere, un Ade in cui noi viventi non siamo ammessi, salvo rarissimi casi che perciò sono ricordati nella vera storia del mond
o.
Oggi il mondo dissacrato richiama i poveri corpi, per renderli testimoni del potere della tecnica.
Laura Liberale cinge di formule magiche tibetane il suo libro, facendo così in modo che le cose ritornino nel loro alveo, e che i morti siano raccontati così, solamente per ciò che in realtà sono: dei morti, un passato che non è più. E’ doloroso, ma glielo dobbiamo: vanno salutati, e lasciati andare, per sempre.

Questa nota è parzialmente riprodotta su “Il recensore”.


Savana Padana subisce moltissimo l’influenza di Sergio Leone (tu stesso parafrasi parlando di “polenta Western”), e, come in Sergio Leone, i personaggi diventano degli archetipi, degli elementi mitologici. Nella realtà della scrittura ti sei ispirato a qualcuno? esistono delle persone che (almeno in parte) hanno contribuito a formare i tuoi personaggi?

Savana Padana è un romanzo non solo influenzato, ma direi anche fortemente sporcato, perturbato e addirittura violentato da diverse contaminazioni e suggestioni, sia letterarie sia cinematografiche. Penso al noir e anche alla crime fiction passando per il pulp, il grottesco, il kitsch. Certo, la cifra più genuinamente western è, con tutta probabilità, quella volutamente più incisiva nell’impronta della storia, nel senso che come dici tu questo aspetto sottolinea gli aspetti più mitologici e se vogliamo epici della vicenda, con questi personaggi che effettivamente assurgono ad archetipi. A tale proposito mi sono ispirato in verità a diverse suggestioni, riferite sostanzialmente a due filoni: uno legato alla realtà vera e propria ed un altro legato alla letteratura e al cinema. Per quanto riguarda il primo devo dare merito anzitutto ad una mia affinità elettiva per una certa dimensione rurale, triviale della mia terra e ai molti personaggi crudi e volgari che popolano le campagne venete, basti pensare ad esempio agli avventori dei nostri bar, alle sagre paesane, ma anche ai protagonisti dei fatti di cronaca nera locale unitamente alle difficoltà legate all’integrazione di molti stranieri. Per quanto riguarda il secondo filone invece, cioè quello più strettamente culturale, potrei citare riferimenti a Lansdale, Leonard, Crews, Lee Burke in letteratura; Leone, Tarantino, il Kusturica di “Gatto nero gatto bianco” e lo Scorsese di “Good Fellas” nel cinema. Tutto frullato insieme in un frappé di grappa, pistole, polenta, sangue e dialetto. E il risultato è quello che conosci. Cioè una brodaglia politicamente scorrettissima e sanguigna che nessun narratore veneto ha mai avuto voglia di raccontare perché troppo preso da solipsismi, contemplazioni dell’ombelico e seghe mentali che ormai appartengono ad una cultura novecentesca per me del tutto superata e assolutamente anacronistica.

Tu vieni dalla letteratura per l’infanzia, e quindi conosci la morfologia della fiaba. Lo stesso processo di formazione si può applicare al thriller-noir, solo che qui non si salva nessuno, né moralmente né materialmente. Possiamo immaginare che lo zingaro gay fuggito con la coca farà presto la stessa fine degli altri, in un racconto che non è ancora stato scritto? Non hai sentito la mancanza (in senso narrativo) di un personaggio che permettesse al lettore di identificarsi? E’ una scelta pericolosa, che però mi pare abbia pagato.

Verissimo, la morfologia della fiaba di Propp a volte è adatta anche alla struttura del thriller-noir, e per la verità anche nelle fiabe antecedenti il XVII secolo l’elemento nero era fortissimo, tanto che spesso non si salvava nessuno nemmeno lì: i loro protagonisti finivano molto male poiché le fiabe venivano considerate come i migliori veicoli di ammonimento comportamentale e avevano principalmente il compito di dissuadere i bambini dal tenere atteggiamenti scorretti come quelli dei protagonisti, pena la loro stessa tragica e sanguinosa fine. Venendo allo zingaro gay di Savana Padana, beh, francamente non ho pensato ad un sequel, anche se a dir la verità, per lui la vedrei molto brutta, nel senso che secondo me finirebbe presto per mettersi in guai più grossi di lui. No, non ho mai sentito la mancanza di un personaggio nel quale il lettore si potesse identificare, e sai perché? Perché la mia idea fin dall’inizio è sempre stata quella di rappresentare un “circo di sangue” al quale si possa assistere dall’esterno o dal di sopra, una sorta di scontro tra moderni gladiatori o di corrida pulp, dove i personaggi rappresentano gli aspetti più barbari, crudi e triviali di ognuno di noi, ma stanno “sotto” a noi, galleggiano in una sorta di sconfitta ineluttabile e in divenire. Adoro essere sarcastico, cinico, spietato con i miei personaggi. Né vincitori, né eroi. Tutti vinti. In fondo tutti vittime della “morale dell’ostrica” di Verghiana memoria. C’è chi ha detto che i miei personaggi sono stereotipi, senza spessore psicologico. Dal mio punto di vista questo non è affatto una “deminutio”, nel senso che i miei personaggi volutamente non sono riflessivi, semplicemente perché non sanno nemmeno cosa sia la riflessione o lo psicologismo. In questo senso sono più simili alle bestie che agli esseri umani: vivono di istinti primordiali, di sensi.
E di gente così ce n’è più di quanta pensiamo…
E poi mi piace il fatto di raccontare storie senza coinvolgimenti morali o psicologici da parte anche del narratore. Raccontare per raccontare. E per divertire. Punto. Poi ognuno si faccia le idee che vuole.

Io stesso ho parlato di Massimo Carlotto, vista la zona di provenienza, ma da un punto di vista narrativo, non mi sembra che abbia molto a che fare con te. Quali sono (oltre al già citato Sergio Leone) i tuoi riferimenti? La tua storia di lettore è affine a quella di scrittore? mi spiego: uno può scrivere quello che gli piace, nel senso di ciò che ritiene affine alla sua indole, cultura etc. Ma dall’altra parte si può anche scrivere ciò che si ritiene giusto scrivere, ciò che uno sente di dover scrivere, perchè dà un valore non solamente personale alla propria scrittura. Sergio Paoli, Carlotto, o Sandrone Dazieri per esempio secondo me rientrano nella seconda categoria (li possiamo definire scrittori impegnati?), mentre nella prima metterei un Landsdale e un McCarthy (ovvero autori che comunque ‘seguono il loro destino’). Tu a chi ti senti più vicino?

Stimo tantissimo Massimo Carlotto e trovo che sia davvero un ottimo scrittore. Ciò detto, io e lui viviamo letterariamente su due pianeti diversi. Carlotto e noiristi a parte, la stragrande maggioranza degli scrittori italiani è per così dire più impegnata a far riflettere che a raccontare. Più che narratori sembrano suore tout court e sacerdoti politici. Nella maggior parte della produzione letteraria nazionale infatti è quasi sempre sottesa una qualsivoglia denuncia sociale, una questione morale che faccia riflettere sul mondo che ci circonda. Io rifiuto questa base di partenza, nel senso che per mia parte voglio provare a fare qualcosa di diverso, qualcosa che non rientri nella solita snobistica concezione tipicamente italiana per cui “scrittori” sono soltanto i lirici e gli intimisti. Io desidero primariamente raccontare storie storie toste, poi se queste fanno anche riflettere qualcuno o in qualche misura riescono a sollevare dei temi di riflessione, bene, sennò va bene lo stesso. Alla lirica preferisco l’epica. Eppoi è importante anche che la mia storia diverta. Altra cosa infatti che francamente non sopporto davvero più è quello snobismo per cui molti autori intendono sempre rivolgersi ad un pubblico cosiddetto “alto”, salvo poi lamentarsi che non si vendono più libri. Ma io mi chiedo: se la cultura è per pochi, possiamo legittimamente parlare di
cultura? Per carità, i miei riferimenti sono altri, e sono da ricercarsi soprattutto oltreoceano: penso a Lansdale, appunto, a McCarthy e a tutti quegli autori tanto amati e citati dal movimento Sugarpulp.

Mi racconti anche se ti stai scrivendo qualcosa, che cosa, di che parla etc.?

Ho già pronto un altro racconto lungo, sostanzialmente si tratta di un horror-noir: una storia di formazione criminale raccontata in prima persona dal protagonista, il quale all’epoca dei fatti era un adolescente perdigiorno. L’anno della storia è il 1982, l’anno dei mondiali di Spagna e di tanta musica pop di successo. I luoghi sono quelli solari delle spiagge di Sottomarina e quelli oscuri e spettrali della laguna nera retrostante il porto di Chioggia, ai confini tra le province di Padova e Venezia.
E proprio in questi giorni ho iniziato a lavorare ad un terzo romanzo del mio filone “polenta-western”. E credo che ci sarà da divertirsi parecchio…

intervista pubblicata su Il Recensore